Pubblichiamo di seguito ampi stralci dell’intervento del cardinale Pietro Parolin al VI Forum Internazionale “Migrazioni e Pace”, sul tema: «Integrazione e sviluppo. Dalla reazione all’azione». L’incontro, che si è svolto a Roma nei giorni scorsi, era promosso dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, dallo Scalabrini International Migration Network (SIMN) e dalla Fondazione Konrad Adenauer.
La storia dell’umanità è stata sempre segnata dalle migrazioni, così come dalle disparità legate all’economia e a strategie politiche e pretese di potere, che si sono più o meno condizionate reciprocamente.
Oggi, tuttavia, il contrasto tra ricchezza e povertà, nel nostro mondo interdipendente è ancor più inaccettabile, operando un solco sempre più profondo tra coloro che dispongono dell’educazione e dei mezzi necessari per progredire e coloro che ne sono privi. Gran parte della popolazione mondiale paga pesanti oneri di povertà, di sottosviluppo e di sfruttamento, pur nella disponibilità di risorse naturali delle quali dovrebbe essere beneficiaria. Colpisce il dato, riportato dall’Oxfam nel suo Rapporto 2016, che le otto persone più ricche del pianeta nel 2016 possedevano la stessa ricchezza netta delle 3 miliardi e seicento milioni più povere, e che nel 2015-2016 dieci tra le più grandi multinazionali abbiano generato profitti corrispondenti a quanto raccolto nelle casse pubbliche di 180 paesi.
Mentre le forme di cooperazione con i paesi meno sviluppati sono condizioni essenziali per efficaci percorsi di pace, per un pieno sviluppo e per la costruzione di società inclusive, i passi per il raggiungimento degli obiettivi fissati dall’Agenda di sviluppo 2030, approvata nel 2015 dai membri dell’Onu, sono complicati da realizzare, a causa di una realtà economica globale che fa dubitare di un miglioramento. Le guerre, specialmente, con il commercio delle armi e la corruzione che ne sono la base, impediscono ogni progresso sociale ed economico e influiscono gravemente per generazioni.
Del resto, nell’attuale quadro mondiale, segnato dalla globalizzazione e di cui potremmo citare anche altri importanti elementi, è sempre più evidente la forte interdipendenza tra pace, sviluppo e rispetto dei diritti fondamentali. Si stenta oggi, però, a cogliere i segni di un importante impegno in questo senso nei rapporti tra gli stati e tra i popoli. Gli stati, invece, sembrano rifugiarsi in ristrette aree di interesse e chiusure nazionalistiche più o meno nascoste.
È un mondo che è stato definito post-globale, oppure post-sovrano e post-nazionale e, tuttavia, vuole proteggersi e oppone indisponibilità nei confronti di circostanze difficili da affrontare o considerate dannose dal punto di vista culturale, economico, ideologico o religioso.
E, d’altra parte, constatiamo strategie politiche guidate da interessi fluttuanti, da insicurezze e dalla paura, disegni politici contrastanti, sotto-sviluppo e distrazione dei fondi destinati a debellarlo, conflitti interminabili, violazioni dei diritti umani, timori per le conseguenze dei cambiamenti climatici e della crisi economica non risolta, imposizioni ideologiche anche all’assistenza umanitaria, deterioramento di situazioni politiche, sociali, umanitarie, ambientali, con commerci criminali di prodotti, persone e risorse.
Lo scenario mondiale è caratterizzato da queste chiusure e ingiustizie, che generano migrazioni, all’interno degli stati o all’estero. Migrazioni ora in grande rilievo come uno dei problemi fondamentali del mondo d’oggi. Una apprensione presa a pretesto per scopi elettorali e di calcoli di vario genere, caratterizzati da manipolazioni di notizie e da un nuovo totalitarismo ideologico che concepisce l’uomo solo come agente economico e che, come tale, lo può scartare, se non serve e, come ha sottolineato Papa Francesco, tende anche a nasconderlo.
Di qui, nell’ambito della politica migratoria, ostacoli e barriere che favoriscono il ricorso a vie alternative e più pericolose di migrazione irregolare, di sfruttamento e di abuso da parte di trafficanti di persone, e perdita di vite umane. Per fermare questi crimini, poi, si spostano i problemi su altri paesi, con oneri economici e politici tanto ingenti quanto pericolosi e inadeguati a risolverli e a garantire i diritti fondamentali delle persone, la loro protezione e la loro dignità.
In questa situazione, pur nell’asserita consonanza di intenzioni e volontà di cooperare, le posizioni più coraggiose e lungimiranti restano isolate in una crescente frammentazione, ponendo a rischio la tenuta democratica di molte società e il progresso — anche economico — globale. Sono vari, in realtà, gli esempi e i tentativi di integrazione economica, ma la situazione globale richiede di ripensarli in termini di maggiore solidarietà, per evitare che implodano.
I 244 milioni di migranti del 2016 sono una sfida all’umanità. E, tuttavia, la migrazione internazionale, in tutte le sue varie forme, non può considerarsi emergenza transitoria. È un diritto umano da salvaguardare; una componente strutturale, che riguarda tutti i continenti e che occorre affrontare nelle sue cause e nel suo compimento con sinergia e cooperazione a livello globale, con un programma sistematico e articolato di interventi, condiviso a livello multilaterale, con strategie e misure organiche di sistema, con condivisione di oneri e di responsabilità.
Ogni stato ha, certamente, diritto di controllare i suoi confini, decidere chi far entrare e, in base al livello di progresso, alla situazione sociale e di sicurezza, alle priorità politiche, ha differenti possibilità di accoglienza, e occorrono saggezza e prudenza.
Ne ha parlato il Santo Padre al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 9 gennaio scorso, notando però che «un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti, ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione».
Invitava poi a non ridurre la crisi migratoria attuale a un semplice conteggio numerico e a non restare «indifferenti, mentre altri sostengono l’onere umanitario, non di rado con notevoli sforzi e pesanti disagi» e a «sentirsi costruttori e concorrenti al bene comune internazionale, anche attraverso gesti concreti di umanità, che costituiscono fattori essenziali di quella pace e di quello sviluppo che intere nazioni e milioni di persone attendono ancora».
In questa economia rappresentata dal bene comune mondiale occorre una cooperazione a tutti i livelli che nasce dalla constatazione delle attuali difficoltà e dei limiti di ciascuno stato e, lo vediamo, anche di intere regioni, di far fronte da soli a questa grande sfida per la comunità internazionale che, in primo luogo, dovrebbe mirare ad assicurare ai popoli e ai singoli pace e sviluppo, facendo così della migrazione una libera opzione anziché una necessità.
Come riconosce l’Agenda per lo sviluppo 2030, la migrazione gestita in modo «sicuro, ordinato e regolare» è un fattore di sviluppo per una crescita inclusiva e sostenibile, e i migranti possono offrire un contributo — spesso essenziale — alla crescita delle società che li ospitano come allo sviluppo, alla stabilità e alla pace dei paesi di provenienza. La migrazione è anche fattore di pace, giacché sono gli stessi rifugiati i testimoni più credibili dell’insensatezza della guerra e della violenza.
È chiaro che essi possono dare un tale apporto conformandosi alle norme del paese che li accoglie e rispettandone le consuetudini e i principi che ne regolano il vivere sociale, e quando il paese che li accoglie assicura il rispetto dei loro diritti e della loro dignità, sin dall’arrivo, attento a chi è vulnerabile. Queste garanzie, con la corretta identificazione dei migranti e delle loro necessità, assicurano i primi passi verso l’integrazione, che è necessario accompagnare con politiche di flessibilità lavorativa e di offerta formativa, verifica di risultati, assicurando in pari tempo, in condizioni di sicurezza, l’accesso ai servizi sociali, al lavoro, ad alloggi adeguati, evitando che si formino condizioni che favoriscono il dilagare dei fondamentalismi. Questo consente alla popolazione locale, che porta innegabilmente il peso dell’accoglienza, di farvi fronte con responsabilità, senza perdere di vista i giusti interessi di coloro che in nella popolazione autoctona sono meno agiati.
Ma è realmente inclusivo un sistema economico come il nostro, ove, come abbiamo visto, sono ancora troppe le vittime e gli scartati? Occorre allora avere una visione più ampia dello sviluppo. Come affermava ancora il Papa, bisogna anche puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Per questo, non si può che partire da nuovi presupposti. Occorre che questa economia inclusiva nasca da una cultura che inglobi l’equità sociale, economica e ambientale, che sappia far fronte alle attuali sfide sociali e tecnologiche. Una cultura della condivisione che presuppone la reciprocità, intesa non come sfida e non tanto nel senso di una stretta corrispondenza di diritti e di doveri, quanto come coinvolgimento partecipe e solidale di tutti i soggetti interessati, in cui tutti possono e devono offrire il proprio contributo, inclusi i migranti, i paesi di provenienza e di transito e di approdo, la società civile.
(L’Osservatore Romano, 22-23 febbraio 2017)