Lavoro e cura: trasformazioni in corso

Pubblichiamo il testo dell’intervento tenuto da Sandro Antoniazzi, ex sindacalista e volontario della Fondazione San Carlo, nel corso dei seminari Dialoghi di vita buona organizzati dalla Diocesi di Milano, sul tema “Lavoro e cura”, il 21 febbraio scorso.

Dello stesso intervento è disponibile anche una registrazione video.

“Per parlare del lavoro e dei suoi cambiamenti porterò un esempio , che ha il valore di un apologo. Se prendete la Metropolitana Gialla e scendete alla fermata LODI, leggete LODI TIBB. Questa parola TIBB è una parola misteriosa che almeno il 90% di quelli che passano di lì non conoscono, TIBB significa Tecnomasio Italiano Brown Boveri e si tratta di un grande stabilimento che si affacciava sulla piazza e aveva ben 3500 lavoratori, la maggior parte operai. L’edificio c’è ancora, ma è occupato da un’impresa assicuratrice. Particolare interessante: sulla destra dell’ingresso principale attuale, c’è un grande cancello e sopra è conservata la scritta “Ingresso operai”. Naturalmente di operai non ce n’è più nemmeno uno e questo portone è fermamente chiuso, quasi a significare che una storia è finita.

Il lavoro di ieri era operaio, era un lavoro produttivo. Gli operai erano importanti perché producevano; erano produttori, creavano la ricchezza. E’ questa l’idea di lavoro che ha dominato per lunghissimo tempo; su questa concezione si è formato e cresciuto il movimento operaio, il sindacato e i diversi partiti del lavoro. (per 150 anni della nostra storia).

Ma ora la produzione in senso stretto è diventata una parte minoritaria dell’economia e del lavoro in senso generale. Ci troviamo di fronte a una realtà complessa, un immenso organismo economico-sociale in cui ognuno fa la sua piccola parte per realizzare quella che potremmo chiamare una “produzione sociale”, cioè un risultato finale che deriva da tanti contributi e attività diverse. Così in Italia il 70% del lavoro è diventato terziario, e a Milano l’ 88%. (di cui metà donne).

Lavoro terziario vuol dire lavoro di relazione, di conoscenza, comunicativo, informativo. Relazione è una parola neutra. Ma se allo sportello, alla cassa, nel rapporto coll’utente o cliente, nell’offrire un servizio, ci mettiamo attenzione, responsabilità, creiamo un minimo di rapporto, insomma ci mettiamo qualcosa che viene da noi, allora vuol dire che ci prendiamo “cura” di quella persona. La relazione non è più anonima, funzionale, acquisisce valore, il valore di un rapporto tra persone.

Papa Francesco ha scritto, come sapete, un’enciclica “Laudato si’” per raccomandarci di avere “cura” dell’ambiente. E ciò perché soprattutto una volta ce ne occupavamo poco e perché c’è ancora molto da cambiare nel nostro atteggiamento. Ma se dobbiamo “avere cura” dell’ambiente, penso che a maggior ragione dobbiamo avere cura delle persone. Però si presentano delle difficoltà.

1) Se il rapporto dell’operaio di ieri era con la macchina e se oggi il rapporto è prevalentemente con le persone dovrebbe esserci un guadagno umano. Ma il rapporto con le macchine è semplice, il rapporto con le persone è molto delicato, richiede rispetto, riguardo, riconoscimento, attenzione, in una parola richiede “cura”.

2) E poi domina l’idea che i rapporti tra le persone valgano soprattutto fuori dal lavoro, mentre nel lavoro valgano regole funzionali e impersonali. Oggi però le tendenze del lavoro offrono la possibilità di un cambiamento che chiaramente non avviene da solo; è un’opportunità da utilizzare, da valorizzare. Però adesso è possibile, perché in un certo senso lo richiede il lavoro stesso.

La stessa cosa si può dire per il lavoro di conoscenza. Oggi nel lavoro è richiesta più conoscenza, che non significa solo più istruzione. In molti casi si chiede di mettere a disposizione la propria intelligenza e la propria iniziativa per il lavoro; la Federmeccanica dice di non aver bisogno di mano d’opera, ma di mente d’opera. Dunque non si tratta di eseguire degli ordini, delle direttive, ma di applicare le proprie capacità al servizio dell’azienda. In altra parole dovete prendervi “cura” degli obiettivi, delle prospettive, dello sviluppo dell’azienda.E’ chiesto un coinvolgimento. Questa è una base importante per una nuova prospettiva di PARTECIPAZIONE dei lavoratori, che è sempre stata nei nostri programmi, ma che ha fatto ben pochi passi in avanti.

Al concetto di lavoro produttivo è stato legato storicamente un altro concetto, il suo contrario, quello di lavoro improduttivo, che ha avuto conseguenze negative.  E’ produttivo solo il lavoro che produce valore, tutti gli altri sono lavori improduttivi, utili, ma improduttivi: commercio, sanità, settore pubblico, finanza…. Sono improduttivi. Per essere chiari un lavoratore pubblico o un infermiere è meno importante di un operaio perché non produce. E’ evidente come in questa concezione ci sia un’esplicita svalutazione  di tanti lavori. Dunque parlando di lavoro come “cura” rivalutiamo in un solo colpo intere categorie di lavoratori, che hanno la stessa dignità e importanza di tutti gli altri. (Guardando lontano, in futuro si potrebbe vedere l’impresa come una collaborazione alla pari tra il capitale e il lavoro).

Non solo: rivalutiamo anche il lavoro domestico, che è il prototipo del lavoro di cura. Le femministe sostengono spesso che i lavori professionali di cura sono poco pagati perché si associa la “cura” alle donne. Qui  esprimiamo l’idea che la cura interessa uomini e donne, ciò che consente , almeno a livello concettuale, di superare potenzialmente questa tradizionale svalutazione.

Parliamo un momento di donne. Tre cose.

Ricordiamo che dell’88% dei lavoratori terziari di Milano metà (il 47% per precisione) sono donne. Mi chiedo, un numero così imponente di donne non ha portato nessun cambiamento nel mondo del lavoro? Io penso di sì. E non ci sarà stata anche un po’ più di “cura”?

Abbiamo parlato del lavoro di relazione e di conoscenza. Nel lavoro produttivo, che spesso richiedeva uno sforzo fisico, la donna era spesso svantaggiata. Nel lavoro di relazione e di conoscenza non solo la donna non è svantaggiata, ma anzi spesso prevale (è sufficiente guardare ai dati sulle laureate). Questo lavoro è una leva importante del progresso delle donne.

Se tante donne lavorano, come è possibile occuparsi contemporaneamente della famiglia? Penso che si debba applicare una elementare regola matematica di equilibrio: più lavoro delle donne fuori casa, maggior lavoro degli uomini a casa. Sembra che stia aumentando fra i giovani padri l’interesse per occuparsi dei figli, ma in generale il progresso in questo campo è molto modesto. Si può e si deve fare molto di più. Occorre per così dire “sfemminilizzare” i lavori di casa; fare da mangiare è maschile o femminile? Stirare è maschile o femminile? E così via.

La parola “cura” è inoltre una parola ponte (polisemica, dicono gli studiosi ). Ciò permette di fare dei collegamenti proficui tra realtà diverse e a volte lontane. Ne cito alcune.

Quando è nato, il sindacato difendeva i lavoratori che erano tutti poveri, proletari. Ora molti lavoratori sono “garantiti”, mentre la “cura” dei poveri è lasciata alla Caritas e altre opere assistenziali. Si è creata una separazione netta tra garantiti e poveri . Cura vuol dire superare questo divario, avere un atteggiamento diverso verso questa realtà: verso chi è meno fortunato, è malpagato, è disoccupato, è povero. Non sono due categorie diverse, non deve esserci soluzione di continuità.

Cura vuol dire un’attenzione maggiore verso i lavoratori di tutto il mondo: 1,5 mld. hanno contratti e qualche protezione, mentre 2,5 mld. sono lavoratori “informali” (es. venditori di strada e soprattutto contadini poveri che guadagnano 1-2 $ al giorno). Il movimento dei lavoratori è sorto con uno spirito di solidarietà internazionale, che ora ha l’occasione di esprimere sia nei confronti degli immigrati, ma anche nella promozione di condizioni dignitose nei loro paesi.

Cura vuol dire preoccuparsi delle fragilità diffuse. Esistono infermità e invalidità gravi, riconosciute dalle istituzioni. Ma ciò che preoccupa maggiormente oggi sono le molte fragilità, vulnerabilità, che sono in costante espansione; fragilità economiche di cui abbiamo parlato, dipendenze varie dalla droga, dall’alcool, dal gioco, le separazioni, le depressioni (la malattia più diffusa in Europa), e così via. Sono un numero impressionante. Sono persone che vivono in mezzo a noi, che lavorano con noi; non sono altre persone, non sono lontani, non sono marziani. Cura vuol dire attenzione alle persone che sono tra noi, che ci sono vicine.

Una parola sulla solidarietà. Tutti gli studiosi sono concordi nell’affermare che è venuta meno la solidarietà operaia. Certamente: sono oggi una minoranza e contano sempre meno. Ma allora dobbiamo rinunciare a una solidarietà del mondo del lavoro? Una cosa era la solidarietà operaia che nasceva da una condizione comune di bisogno. La solidarietà nasce da questi rapporti fra persone, rapporti interpersonali che devono essere aperti, tendere ad allargarsi. Possibile che col lavoro di ieri c’era solidarietà e col lavoro di oggi, relazionale, non ci sia? Appunto, bisogna prendersi “cura” di queste relazioni e trasformarle in senso solidale.

Potrei continuare (ad esempio, parlando degli anziani, un intero mondo di milioni di persone in cui questo discorso sulla “cura” si presenta centrale. Tutti gli anziani quando chiedete loro cosa fanno rispondono faccio il nonno; ecco gli anziani dovrebbero fare i “nonni” non solo verso i nipoti, ma anche verso la loro comunità). Possiamo dire sinteticamente che abbiamo bisogno tanto nel lavoro come nel territorio ( perlomeno accanto alle forti tendenze individualistiche, concorrenziali, consumistiche)  di una società benevola,  accompagnante, curante, di un atteggiamento diffuso, una mentalità, una morale, di “cura” di sé e degli altri.

Concludendo.

Ciò di cui ho parlato sono in parte cose reali, in parte dei processi in corso ancora aperti, in parte cose possibili che dipendono da noi che si avverino. Ad esempio, la concezione del lavoro di ieri è certamente superata, ma non abbiamo ancora una nuova visione affermata; parlare di cura è dare un contributo in questo senso. C’è molto lavoro e molta riflessione da fare.

L’importante è non vivere da spettatori. Continuo a pensare che devono essere gli uomini, le persone, a orientare il mondo in cui viviamo e non forze incontrollate e incontrollabili.

Per questo ci vuole un cambiamento di mentalità. E i cambiamenti di mentalità nascono dal basso.

Le mie considerazioni sono praticamente un programma sociale usufruibile a livello personale, che ognuno può fare suo. Sono temi che andrebbero ripresi  alla base, nelle nostre associazioni, nelle nostre comunità”.