Promuovere e connettere: la Chiesa italiana per il lavoro

Proponiamo il testo di un’intervista di padre Giacomo Costa al direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, mons. Fabiano Longoni.

Nella conversazione, pubblicata dalla rivista Aggiornamenti Sociali, si parla del rapporto della Chiesa con la società e dell’attenzione al tema del lavoro, che sarà al centro della prossima Settimana Sociale dei Cattolici italiani, prevista in ottobre a Cagliari.

I mutamenti della realtà sociale e le provocazioni di papa Francesco interrogano la Chiesa italiana e il suo rapporto con la società e la stimolano a rinnovare la propria pastorale sociale. In questo percorso un appuntamento importante è rappresentato dalla 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, che si svolgerà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre, con il titolo «Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale». Ne parliamo con mons. Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana (CEI).

Mons. Longoni, di che cosa si occupa esattamente l’Ufficio che Lei dirige?

Come prima linea di azione, insieme a tutti gli uffici omologhi diocesani aiutiamo le Chiese a ricordare e ad assumere che «Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale». È la visione che papa Francesco esprime al n. 177 della Evangelii gaudium e che il Convegno ecclesiale di Firenze ha adottato come riferimento fondamentale per tutti i settori della pastorale. La posta in gioco è che da un lato l’evangelizzazione non diventi puro annuncio spiritualistico e dall’altro le nostre analisi e proposte non costituiscano solo un esercizio sociologico.

Un secondo asse di lavoro è quello che a Firenze è stato espresso con il termine “abitare”: sollecitare le nostre Chiese ad analizzare da diversi punti di vista concreti (economico, sociale, ecologico, civile, politico, istituzionale) la condizione del nostro Paese e a prendere la parola sulla qualità della democrazia economica, sociale, politica. La capacità della Chiesa di connettere le forze migliori, di indicare la priorità della protezione e della promozione dei più deboli e di denunciare ingiustizie e illegalità, risulta essenziale per la tenuta del tessuto sociale: per questo le nostre comunità sono e devono continuare a essere “Chiese di popolo”. In molti luoghi la Chiesa è l’unico punto di riferimento per ristabilire legami sociali, in collegamento con tutti coloro che, a prescindere dall’appartenenza religiosa, sentono necessaria un’azione sussidiaria per sviluppare il Paese. Facendo conoscere le azioni intraprese in questa linea nei diversi territori, l’Ufficio promuove la diffusione di stili pastorali inclusivi che aiutino i diversi soggetti a leggere e interpretare il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo.

La prospettiva di riferimento non può che essere l’ecologia integrale come orientamento generale della pastorale: se tutto è connesso, dobbiamo mantenere uniti benessere umano e custodia del creato, come il recente magistero ci invita a fare.

 

In questo periodo molto del suo tempo è impegnato per la prossima Settimana sociale di Cagliari, dedicata al lavoro: perché questo tema?

Il lavoro deve essere sempre più occasione per un umanesimo cristiano realizzato nella vita delle persone: in questo senso è il centro della questione sociale, per usare le parole di Giovanni Paolo II al n. 2 dell’enciclica Laborem exercens. Sceglierlo come tema della Settimana sociale è un modo per fare concretamente nostra la costante preoccupazione che papa Francesco manifesta per il dramma della disoccupazione, che affligge due categorie: i giovani e coloro che, arrivati a una certa età, perdono il lavoro e sono condannati insieme alle loro famiglie alla povertà e spesso alla disperazione.

 

Il titolo, suggestivo, della Settimana sociale è «Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale». Ma nell’Italia di oggi qual è il lavoro che vogliamo?

In fondo, non è altro che quello che ci propone la nostra Costituzione: un lavoro che permetta veramente a ognuno di contribuire allo sviluppo materiale e spirituale della società. Si badi bene: allo sviluppo, non solo alla crescita economica. Così questo titolo ci ricorda che esistono anche “cattivi lavori”, funzionali solo al profitto e non rispettosi della dignità delle persone. A partire dalla dottrina sociale della Chiesa, non possiamo che essere critici verso una visione puramente economicistica del lavoro: come dice la Lettera di invito della Settimana sociale, dobbiamo interrogarci se il lavoro è ancora vocazione, opportunità, valore, fondamento di comunità, promozione di legalità, e come fare perché continui a esserlo.

 

E a quale obiettivo mira la Settimana sociale?

Certo non sarà un esercizio accademico di studio, anche se non trascurerà l’approfondimento delle novità più rilevanti, come il tema dell’automazione e dell’industria 4.0. Me la immagino soprattutto come una occasione sinodale per far conoscere e valorizzare le molte esperienze che le diocesi, le associazioni e i movimenti conoscono e valutano come positive. In fondo “il lavoro che vogliamo” esiste già, ma difficilmente trova spazio, in particolare sui media, dove per lo più emergono le patologie. Per questo intendiamo dare visibilità all’opera di imprenditori, di cooperative, di organizzazioni sindacali, di amministrazioni che già si muovono in modo innovativo e sensibile alle esigenze che ho provato a delineare. L’obiettivo finale è dare forma a un’agenda per la diffusione di queste buone pratiche. Le Settimane sociali non nascono per lamentarsi, ma per proporre, per far conoscere eccellenze, per far sì che i cattolici, ispirandosi alla dottrina sociale, si impegnino in economia e in politica stimolando il Paese con proposte concrete di promozione del bene comune.

 

In vista dell’appuntamento di Cagliari è stato previsto un percorso di preparazione: ce ne ricorda le tappe?

Il percorso è partito dal Festival della dottrina sociale (Verona, 24-27 novembre 2016) per approdare nelle scorse settimane al convegno «Chiesa e lavoro. Quale futuro per i giovani del Sud» (Napoli, 8-9 febbraio 2017) e al seminario nazionale che il nostro Ufficio ha organizzato a Firenze (23-25 febbraio 2017), intitolato «Ecologia integrale nel lavoro e nei conflitti. Prospettive per un annuncio cristiano ineludibilmente sociale». Ora ci aspetta il convegno nazionale di Retinopera, dedicato al «Senso del lavoro oggi» (Roma, 13 maggio 2017).

Queste tappe “nazionali” non sono le uniche: molte realtà locali e associazioni di categoria si stanno muovendo e importantissimo sarà il lavoro di preparazione a livello diocesano. Fondamentale è l’azione di Cercatori di LavOro[1], una iniziativa per aiutare le diocesi a trovare esperienze che possano contribuire all’incontro di Cagliari con una serie di parametri guida. La traccia da seguire sono i «quattro registri comunicativi» proposti dalla Lettera di invito: la denuncia delle situazioni più gravi e inaccettabili; il racconto delle profonde trasformazioni del lavoro, dando voce ai lavoratori e alle lavoratrici; la raccolta delle buone pratiche con cui già si offrono soluzioni a livello aziendale, territoriale e istituzionale; e infine la formulazione di proposte di intervento sul piano istituzionale.

 

L’attenzione della Chiesa italiana per il lavoro non comincia certo oggi. Negli ultimi anni la CEI ha molto investito sul Progetto Policoro. Di che cosa si tratta? Quando è cominciato e che risultati sta raggiungendo?

Il Progetto Policoro nasce in un contesto sociale e culturale particolare, immediatamente dopo il Convegno ecclesiale di Palermo del 1995, che aveva un titolo molto significativo: «Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia». In quel frangente storico era necessario accogliere gli aneliti profondi di giustizia e di speranza che una parte consistente della società esprimeva e sostenere l’affermarsi di una prima coscienza di lotta sociale alla illegalità e alle mafie. Lo scopo di Policoro era ed è fare da volano, da apripista per uno sviluppo integrale delle persone e dei territori, facendo ripartire il futuro attraverso la scelta di investire sull’intelligenza e sul cuore delle persone e soprattutto, allora come oggi, convincendo gli adulti a puntare sui giovani intesi come protagonisti del cambiamento e non come oggetto di interventi calati dall’alto.

Attraverso questo tentativo di lottare contro la disoccupazione la Chiesa italiana ha assunto una connotazione profetica nei confronti di molti giovani del Sud e oggi anche del Centro-Nord, puntando non sulla erogazione di contributi, ma su un itinerario esigente di formazione all’imprenditorialità. La proposta di Policoro è di rendere il lavoro un annuncio di stile di vita cristiano, ricco di speranza, aperto alla condivisione. Policoro è una esperienza di Chiesa “in uscita”, cosciente di non poter guardare a se stessa in chiave unicamente spiritualistica e consapevole che l’annuncio di cui è portatrice comporta un cambiamento integrale che non è solo una ispirazione, ma una proposta di vita concreta. È questo l’umanesimo cristiano.

Oggi Policoro vede l’adesione di 139 diocesi, in cui sono stati formati 194 animatori di comunità. In questi 22 anni sono nate da questa esperienza più di 700 imprese, con una fatturato di tutto rispetto. Ma più che dei risultati economici siamo fieri di aver contribuito a dare ai giovani speranza in loro stessi e nei loro contesti sociali. Molti dei giovani che saranno presenti a Cagliari proverranno proprio dalle iniziative legate al Progetto Policoro.

 

Il Convegno ecclesiale di Firenze del 2015 rappresenta la bussola dell’azione pastorale: ce lo ha ricordato fin dalle sue prime parole. Come sta rispondendo la Chiesa italiana, ai suoi diversi livelli, all’invito che papa Francesco le ha rivolto in quella occasione?

La Chiesa italiana ha preso sul serio le sollecitazioni del Papa: vuole essere una Chiesa non ossessionata dal potere e non impaurita dai conflitti che la ricerca delle soluzioni in fedeltà al Vangelo comporta, soprattutto capace di un cammino sinodale. Per questo abbiamo messo a tema del seminario di Firenze dello scorso febbraio proprio la lettura dei conflitti che spesso si aprono nelle nostre comunità su temi come l’accoglienza degli immigrati, il reinserimento dei carcerati, la giustizia riparativa, ecc. Il conflitto nasce all’interno delle persone e ci porta a fare i conti con la disgregazione della coscienza comunitaria in atto da tempo. Cercare di sfuggire al conflitto sarebbe sottrarsi alla responsabilità di vivere il Vangelo in fedeltà a Dio e all’uomo, svuotando – per paura o per garantirci una vita tranquilla – quel fuoco che Gesù ha portato sulla terra. Il conflitto va assunto e trasformato in processo di cambiamento in vista del bene comune.

Concretamente, grazie agli stimoli offerti dai delegati alla pastorale sociale, molte Chiese hanno accettato di vivere forme di democrazia partecipativa, di aprirsi a un ascolto qualificato, di formulare proposte competenti e non solo facili denunce. Sulla base di una identità aperta, di uno stile accogliente e di una disponibilità al dialogo e al confronto, è possibile proporre con fiducia i contenuti della visione cristiana della vita buona e soprattutto accompagnare il cambiamento.

Questa trasformazione dell’azione pastorale è il traguardo a cui punta anche l’attività del nostro Ufficio, a partire dagli orientamenti della CEI per il decennio che ci invitano a porre come centrale la dimensione educativa. Proviamo a realizzarlo ad esempio attraverso i due seminari nazionali che organizziamo ogni anno, affrontando i cambiamenti in atto con il metodo della democra-zia deliberativa e partecipativa, proponendo lo studio della dottrina sociale a partire dalla Laudato si’ e lo scambio di esperienze e buone pratiche per elaborare criteri e orientamenti in vista di azioni efficaci.

 

Dunque ai mutamenti della società deve corrispondere una trasformazione della pastorale sociale: quali sono le sfide urgenti che lo esigono? E verso che direzione deve muoversi questo rinnovamento della pastorale sociale?

Le sfide sono molteplici, ma a mio avviso abbiamo ricevuto in dono da papa Francesco i quattro criteri metodologici che costituiscono un punto fermo per la nostra azione. Invito tutti a rileggerli nella Evangelii gaudium (nn. 222-237): aprono nuove prospettive per affrontare nel dialogo rispetto alle sfide di una società multietnica e multireligiosa. Molte volte nelle nostre diocesi il percorso si è arrestato a causa dei conflitti e dei fraintendimenti ideologici con cui anche in ambito ecclesiale si sono affrontati questi temi. Affrontare le sfide a partire dalla volontà di aprirsi con metodi di confronto nuovo – per questo richiamavo prima la democrazia deliberativa e partecipativa – significa non autobloccarsi davanti ai cambiamenti, significa innanzitutto credere alla azione reale dello Spirito che guida la storia.

 

Quali luoghi o situazioni indicherebbe come “periferie d’Italia” oggi?

Penso ai luoghi dove i diritti – all’istruzione, al lavoro, alla salute – non sono tutelati e promossi, dove manca la certezza del diritto, dove si accentuano le disuguaglianze, dove non si agisce in favore dell’integrazione sociale fra residenti e migranti, dove regnano corruzione e illegalità e dove lobby di potere proteggono interessi consolidati, non permettendo a nuove forze di contribuire allo sviluppo. Le periferie non sono solo geografiche, ma esistenziali: in questo senso, nel nostro Paese sono “periferici” i giovani. Appare sempre più necessaria un’alleanza tra generazioni e forse anche la rinuncia o, almeno, la riconsiderazione di diritti che, anche dove legittimamente acquisiti – penso a pensioni e previdenza –, impediscono a intere generazioni di avere un futuro di welfare.

 

In che modo la Chiesa italiana può raggiungere queste periferie, secondo l’invito che fin dall’inizio del pontificato papa Francesco ha rivolto a tutti i membri della comunità cristiana?

Pastoralmente credo sia essenziale una azione concertata con le Caritas. Proprio l’esperienza del Progetto Policoro, organizzata insieme a Caritas e Servizio di Pastorale giovanile, mostra che è vincente la collaborazione tra le diverse dimensioni della pastorale e gli organismi a cui sono affidate. Un’alleanza fra l’azione caritativa della Chiesa e l’azione della pastorale sociale, come stiamo cercando di fare a livello nazionale, può e deve essere assunta come modello di una Chiesa in uscita e di una pastorale in favore della giustizia, dell’equità, della buona politica, che può cambiare le periferie dal di dentro. Affrontare povertà ed emergenze sociali richiede di interrogarsi sulle loro cause e di conseguenza promuovere cambiamento sociale, attivando coscienza educativa per far scaturire nuove modalità di impegno politico, di leadership territoriali, di proposte legislative. Ma questo non è possibile senza una concertata azione culturale in cui la Chiesa non può presentarsi disunita.

 

Dove scorge segnali di resistenza a questo movimento di uscita?

Mi vengono in mente alcune visioni che escludono l’azione sociale, ispirata dalla dottrina sociale della Chiesa, dal nucleo fondamentale della missione ecclesiale. A questo proposito ricordo un passaggio fondamentale del Concilio, il n. 43 della Gaudium et spes, in cui leggiamo: «Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in pericolo la propria salvezza eterna». Continuare a pensare che l’annuncio cristiano possa prescindere dalla sua origine trinitaria e quindi relazionale, che la salvezza come dono di Dio prescinda dal servizio all’uomo, che fedeltà a Dio e all’uomo siano in contrapposizione, significa snaturare la fede cristiana, minarla nei suoi fondamenti. Altre resistenze sono quelle di coloro che pensano che di fronte alla società liquida sia necessario arroccarsi a difesa, scommettendo che la “sacralità” sia il naturale alveo del cristianesimo. In realtà il centro della missione cristiana, anche spirituale, sta nell’affrontare il male in tutte le sue forme, lottando contro le strutture di peccato. La Chiesa in uscita è un processo, forse lungo, ma di natura irreversibile.

 

Quale impatto ha avuto sulla Chiesa italiana l’enciclica Laudato si’? Dal suo osservatorio che segni di «conversione ecologica» scorge nella Chiesa e nella società italiana?

Ne scorgo moltissimi, da una serie di iniziative in campo educativo e culturale per approfondire il paradigma dell’ecologia integrale fino alle applicazioni pratiche. Mi limito a qualche esempio, a partire dalla guida per eco-parrocchie che promuoveremo nei prossimi mesi insieme a FOCSIV. Sono molti anche gli esempi locali, come le iniziative della diocesi di Monreale (Opifici di pace) e di Roma per la raccolta differenziata in parrocchia. Ma sono molte di più quelle che segnaliamo nel nostro sito. Anche la vostra Rivista è molto attenta a queste iniziative, e in alcune siete coinvolti direttamente. A un livello ancora più di base, non possiamo dimenticare la diffusione di gruppi che si interrogano intorno al tema degli “stili di vita” per la riduzione dell’inquinamento e dell’impatto ambientale. Poi ci sono associazioni importanti, come Coldiretti, che fondano la propria azione sulla dottrina sociale e si fanno promotrici di cambiamento fra i propri aderenti e in tutta la società italiana.

 

All’inizio del 2017, all’interno del processo di riforma della Curia romana, papa Francesco ha dato vita al nuovo Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, una sorta di “Ministero vaticano degli affari sociali”: la sfida è quella di dare traduzione istituzionale al paradigma dell’ecologia integrale, che cerca i nessi anziché separare gli aspetti dei problemi. In che modo questa decisione può ispirare un rinnovamento della prassi ecclesiale? La Chiesa italiana e le singole diocesi seguiranno l’esempio?

Non posso saperlo, ma credo che in questo momento sia in atto una profonda riflessione. Certamente questa riorganizzazione della Curia ci stimola a chiederci come l’intera Chiesa intende affrontare la sfida di una evangelizzazione che riconosca l’ambito sociale come essenziale. Più in radice penso anche che non saranno strutture e organismi a dettare la linea, ma semmai una corresponsabilità condivisa nel Popolo di Dio. E su questo piano le cose si sono già messe in moto, grazie a ciò su cui papa Francesco insiste fin dal primo momento: uno stile collaborativo, uno spirito partecipativo, ma anche una buona dose di creatività pastorale.

(da Aggiornamenti Sociali, n° 3 / 68)

 

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[1] L’iniziativa Cercatori di LavOro, lanciata in vista della prossima Settimana sociale di Cagliari, vuole offrire ai vescovi e alle comunità ecclesiali locali, spesso alle prese con problematiche di povertà e assenza di lavoro, i riferimenti di soluzioni possibili adatte anche al proprio territorio. Ciò significa stimolare le realtà locali ecclesiali a conoscere il proprio territorio, identificandovi una pratica eccellente in materia di lavoro. Una volta individuata la migliore pratica, i Cercatori dovranno incontrarla, raccontarla e valutarne le caratteristiche, confrontando il loro vissuto e la loro esperienza con pratiche analoghe raccolte in altre aree in laboratori di confronto a livello regionale e poi all’incontro nazionale di Cagliari.