La questione della cittadinanza agli immigrati è un passaggio ineludibile per le democrazie, ma il provvedimento in discussione al Senato non è privo di controversie. Vi proponiamo di seguito gli appunti della sociologa Laura Zanfrini, docente di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica alla Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ai sostenitori e ai detrattori della riforma.
Affrancare la cittadinanza dalle sue incrostazioni e derive nazionalistiche è un passaggio cui difficilmente possono sottrarsi le democrazie che vogliono continuare a definirsi tali. Sebbene ciò implichi il compito, tutt’altro che facile, di ridefinire l’appartenenza secondo criteri diversi da quelli dell’omogeneità etnica e culturale, sui quali si sono storicamente edificate le nazioni europee. Ogni legge in questa materia è per definizione imperfetta, e imperfetta non potrà che essere anche la legge che esiterà dal dibattito parlamentare.
A chi attacca la riforma
Se venisse approvata, la riforma produrrebbe, nell’immediato, centinaia di migliaia di potenziali nuovi cittadini. Ma si tratta, in sostanza, d’accelerare un processo destinato comunque a compiersi nel giro di pochi anni. Già oggi, circa 4 su 10 degli stranieri che diventano cittadini (oltre 200mila nel 2016) sono giovani fino ai 19 anni, divenuti italiani per scelta al raggiungimento della maggiore età o, più spesso, per trasmissione dai genitori che hanno maturato i requisiti per richiedere la naturalizzazione. E si tratta di cifre destinate a crescere ulteriormente nei prossimi anni, perfino nell’ipotesi in cui il disegno di legge non venisse approvato.
Fomentare la paura che “regalando” la cittadinanza si finirà con l’immettere nel corpo della nazione persone di dubbia lealtà può essere un argomento seducente, ma che diventa insostenibile quando lo si indichi come probabile effetto della riforma in discussione. Basterebbe constatare come molti dei giovani che si sono macchiati dei più efferati atti terroristici avrebbero posseduto i requisiti per diventare cittadini anche con una legislazione ben più restrittiva.
Decisamente contestabile, infine, l’affermazione secondo la quale la riforma avrebbe l’effetto di attrarre nuova immigrazione “indesiderata”. A calamitare gli immigrati, specie quelli irregolari, è semmai, da sempre, l’ampia e radicata economia sommersa, con la sua insaziabile domanda di lavoro iper-adattabile, insieme alla nostra “tolleranza” verso l’immigrazione irregolare e le pratiche d’aggiramento della legge (che vedono gli immigrati perfettamente “integrati” al mal costume italico). Non certo quella cultura dei diritti – e dei doveri – di cui dovrebbe sostanziarsi l’istituto della cittadinanza.
Gli appunti ai fautori della riforma
Del tutto improprio è sostenere che la riforma possa costituire un sollievo per la grave situazione demografica del paese più “vecchio” al mondo. Poiché un mutamento di status non avrà alcuna efficacia nel riequilibrare la composizione di una popolazione che registra – nonostante il contributo di un’immigrazione concentrata nelle età riproduttive – un numero di nascite annuali più che dimezzato rispetto a quello dei mitici anni del baby boom.
Altrettanto fuorviante affermare che l’apporto di questi nuovi italiani sarà indispensabile per far funzionare l’economia e “pagarci le pensioni”. Poiché per rendere concreto e prezioso il contributo dell’immigrazione e dei suoi discendenti occorrerà piuttosto creare lavoro, e soprattutto lavoro “buono”, con prospettive di stabilizzazione e retribuzioni dignitose. Uno scenario ben distante da quello che oggi vede tanti giovani ripercorrere le rotte dei migranti del passato, nella speranza di poter mettere a frutto i propri talenti e la propria voglia di lavorare. E tanti giovani, soprattutto stranieri, sottoccupati e sotto-retribuiti, quando non esclusi da ogni forma partecipazione attiva (tra gli stranieri 15-34enni, oltre un terzo si trova nella condizione di NEET).
Ancor meno convincente fondare la necessità di una riforma sulle lungaggini burocratiche che dilatano i tempi d’attesa per i candidati alla naturalizzazione. Esse sono semmai l’ennesima riprova di un sistema caratterizzato da scarsa cultura dei diritti e inefficienze ataviche, come rilevano gli stessi immigrati, quando li si invita a confrontare l’Italia con le altre democrazie “avanzate”. Ricordandoci come a qualificare ogni legge, oltre al suo contenuto, è la capacità e la volontà di farla rispettare. Tanto da renderci sconcertati di fronte a un paese che tollera, nei confronti degli immigrati per i quali s’invoca l’uguaglianza, situazioni di sistematica violazione dei diritti più basilari, e condizioni di sfruttamento che rasentano lo schiavismo.
Infine, la riforma non renderà davvero uguali i bambini che nascono in Italia. I più vulnerabili, come i figli degli immigrati irregolari, non potranno accedere ai suoi benefici, così come i più poveri, appartenenti a famiglie prive dei pur modesti requisiti previsti dal disegno di legge, e i minori che hanno evaso l’obbligo scolastico (che più che un requisito per la naturalizzazione dovrebbe essere un diritto da garantire). Così come potrebbero restarne esclusi i figli dei genitori più “fondamentalisti”, inclini a privilegiare i legami col paese d’origine, e quelli dell’iper-borghesia internazionale, poco interessati ai “vantaggi” della cittadinanza italiana.
L’uguaglianza non può restare solo una promessa
Alla élite dei giovani di seconda generazione che si sono mobilitati all’insegna dello slogan “italiano sono anch’io” va il merito di aver richiamato l’attenzione su quanto la cittadinanza di un paese democratico possa essere preziosa, specie per chi reca l’eredità di una storia familiare segnata dalla ricerca di una vita libera e affrancata dalla povertà. E, insieme, sulla necessità di dar voce a una società sempre più plurale e globalizzata. Ma il suo significato potrebbe essere ancor più rilevante per le molte giovani vittime della condizione di disagio strutturale che segna l’esperienza dei figli di un’immigrazione concentrata nei gradini più bassi della stratificazione sociale. E sono soprattutto costoro che interpelleranno la società italiana nella sua capacità di dar seguito alle attese che la “concessione” della cittadinanza porta con sé. Giacché la storia c’insegna come la promessa dell’uguaglianza, quando resta solo una promessa, rischia di essere ancor più frustrante della disuguaglianza istituzionalizzata.
(da www.cattolicanews.it)