Una Chiesa unita, proiettata verso la missione, testimone di una cultura della carità e della vita. Nella prolusione con cui il Card. Gualtiero Bassetti ha aperto i lavori del Consiglio Permanente della C.E.I. (Roma, 25-27 settembre) le priorità che attendono le comunità del nostro Paese e gli ambiti in cui è più urgente intervenire: il lavoro, i giovani, la famiglia, le migrazioni. Vi proponiamo di seguito un estratto dell’intervento del cardinale ed alleghiamo il testo integrale.
«La Chiesa italiana, per portare la luce di Cristo in questo mondo nuovo, deve far affidamento su alcune preziose bussole di orientamento. Si tratta di priorità che coniugano una sapienza antica con l’attuale magistero pontificio: lo spirito missionario; la spiritualità dell’unità; e la cultura della carità.
Lo spirito missionario
Siamo chiamati, innanzitutto, ad essere Chiesa al servizio di un’umanità ferita. Che significa, inequivocabilmente, essere Chiesa missionaria. E la prima missione dei cristiani consiste nell’annuncio del Vangelo nella sua stupenda, radicale e rivoluzionaria semplicità. Un annuncio gioioso, come ci ricorda l’Evangelii Gaudium, che punti all’essenziale, «al kerygma» perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (EG 165).
È la visione francescana di un Vangelo sine glossa, quel Vangelo che dobbiamo ad ogni uomo e a ogni donna, senza imporre nulla. È un annuncio d’amore per ogni uomo. Ricordando sempre, come ci ha insegnato don Primo Mazzolari, che «l’Amore non è colui che dà ma Colui che viene» e che può nascere in una stalla e morire sul Calvario «perché mi ama».
Molto si fa nelle nostre Chiese, ma questo cammino va accelerato. Crescono nuove generazioni, diverse dalle precedenti. Ha scritto il Santo Padre: «Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (EG 30).
È assolutamente necessario un deciso impegno per rivitalizzare le realtà che già esistono al nostro interno, ma che forse hanno smarrito la tensione e la capacità di animazione sul territorio. Va nella linea di un rilancio della pastorale missionaria anche la prima edizione del Festival nazionale, che quest’anno si svolgerà Brescia dal 12 al 15 ottobre. La missione non solo è possibile, ma è il termometro della nostro essere Chiesa.
Abbiamo percorso questa strada con decisione e libertà da noi stessi e dal passato? Mi interrogo. L’obiettivo, per la Chiesa italiana, è semplice quanto decisivo: concretizzare «il sogno missionario di arrivare a tutti» (EG 31). Un sogno che ci scuote dalle abitudini e dalla pigrizia e ci appassiona. È il senso della nostra vita, come dice l’apostolo Paolo: «guai a me se non annuncio il Vangelo» (1 Cor 9, 16). Che il «sogno missionario» diventi la nostra passione personale e quella del popolo di Dio.
Così, nel cuore di questo «cambiamento d’epoca», la Chiesa italiana sta in mezzo al popolo con la semplicità eloquente del Vangelo, senza altra pretesa che darne testimonianza. Il primato dell’annuncio del Vangelo fa tornare semplici. Talvolta fa archiviare progetti, non sbagliati, ma secondari rispetto a tale primato. Il nostro orizzonte diventa più semplice, ma non meno impegnativo: prima il Vangelo!
La spiritualità dell’unità
Uno dei fatti più belli della Chiesa italiana è la multiformità, frutto di storia, radicamenti secolari, coraggiose intraprese, iniziative carismatiche, fedeltà costruttive. In questo tempo di particolarismi e allentamento dei legami ci può essere la tentazione di andare ciascuno per la propria strada. Isolarsi è una tendenza che può entrare anche all’interno della Chiesa ma che va allontanata con decisione: un corpo è vivo solo se tutte le membra cooperano tra loro. Nessun membro del corpo può vivere da se stesso. Mi auguro che queste affermazioni siano accolte per quello che intendono essere: un forte richiamo a un maggiore apprezzamento tra le diverse realtà ecclesiali, in un’autentica gara a stimarsi e valorizzarsi a vicenda (cfr. Rm 12, 10).
La ricca complessità della Chiesa, però, non può essere ordinata con una geometria pastorale calata dall’alto. È necessario far maturare, in questo tessuto, una spiritualità dell’unità. Il cuore di questa spiritualità conduce a parlarsi con parresia, «a voce alta e in ogni tempo e luogo» (EG 259), a partire dal Consiglio permanente della CEI fino alla più piccola parrocchia d’Italia. Siamo chiamati a dare vita non ad una Chiesa uniforme, ma ad una Chiesa solidale e unita nella sua complessa pluralità. Si tratta dunque di un’autentica vocazione alla collegialità – tra i vescovi e tutto il corpo della Chiesa – e al dialogo.
Chi dialoga non è un debole ma è, all’opposto, una persona che non ha paura di confrontarsi con l’altro.
La cultura della carità
La cultura della carità è la cultura dell’incontro e della vita, che si contrappone alla cultura della paura, dello scarto e della divisione. Essa è l’incarnazione della parabola del samaritano. «L’antica storia del Samaritano», come disse Paolo VI alla conclusione del Vaticano II, «è stata il paradigma della spiritualità del Concilio».
La Chiesa è chiamata a promuovere una cultura che si prefigge «l’inclusione sociale dei poveri» perché essi «hanno un posto privilegiato» nel popolo di Dio (EG 186-216). E proprio perché «non amiamo a parole ma con i fatti» il Papa ha istituito la Giornata mondiale del poveri che si celebrerà per la prima volta il 19 novembre. Di fronte ai poveri la Chiesa italiana prende a modello san Francesco: quando incontra «il cavaliere nobile ma povero» si toglie il mantello per darlo a chi è nel bisogno. Perché i poveri, anche se non fanno notizia, ci lasciano intravedere il volto di Cristo.
«Non avrei mai pensato che in terra cristiana, con un Vangelo che incomincia con “Beati i poveri”» diceva don Mazzolari «il parlar bene dei poveri infastidisse tanta gente, che pure è gente di cuore e di elemosina». Parole che sono attualissime perché la povertà, ancora oggi, è uno scandalo da nascondere e da occultare. Andare verso i poveri, invece, è inequivocabilmente una questione che investe la fede e che si riflette nel modo di vivere la Chiesa.
La cultura della carità è anche sinonimo della cultura di una vita, che va difesa sempre: sia che si tratti di salvare l’esistenza di un bambino nel grembo materno o di un malato grave; e sia che si tratti di uomo o una donna venduti da un trafficante di carne umana. Noi abbiamo il compito, non certo per motivi sociologici o morali, di andare verso i poveri per una missione dichiaratamente evangelica».
Testo integrale della prolusione del Card. Gualtiero Bassetti