Di seguito il testo (*) della riflessione biblica proposta dal professor Luigino Bruni nel corso della Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si è svolta a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017.
“Ho osservato anche che ogni lavoro e ogni industria degli uomini non sono che invidia dell’uno verso l’altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento. L’idiota incrocia le sue braccia e divora la sua carne. Meglio riempire un palmo di calma che due manciate di affanno e compagnia di vento” (Qohelet 4, 4-6). Qohelet continua la critica della sua società e alle sue vanità. Vede ‘sotto il sole’ uomini che si affannano nella concorrenza, in una competizione che per Qohelet non è l’anima dello sviluppo ma solo il risultato dell’invidia sociale. Ha visto uomini superarsi in un gioco dove tutti perdono, ‘gare posizionali’ senza traguardo. Lo ha visto nel suo mondo, e noi lo vediamo ancora di più nel nostro. E quindi torna forte il suo giudizio: hebel, vanità, fumo, rincorsa sciocca di vento. Al lato opposto di questa frenesia, Qohelet vede chi rinuncia alla gara, incrociando le braccia nell’inattività. Neanche questa è sapienza. È stolto almeno quanto la competizione invidiosa della prima scena.
E poi ci indica una via saggia: lasciare libera una mano perché il suo palmo possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla ‘consolazione’. Le due mani dell’uomo non devono essere impegnate nella stessa attività: se è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le occupa col solo lavoro frenetico. Il frutto del lavoro e dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre.
La nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha dato vita ad una cultura della vita buona fondata sul lavoro, istituendo un legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro. Le braccia inattive perché non si vuole o non si può lavorare nell’età del lavoro, non sono braccia generatrici di benessere né di gioia. Nella corsa che la civiltà occidentale ha iniziato da alcuni decenni, però, ci siamo dimenticati la seconda follia-vanità del saggio Qohelet: la vita è fumo e fame di vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti ‘tempi’.
In quella cultura antica era ancora molto viva l’esperienza dell’Egitto e di Babilonia, quando gli ebrei diventati schiavi lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e solo per il lavoro. È difficile dire se oggi soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici. Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non la vediamo come follia e vanitas, e la incentiviamo.
È il rapporto tra l’uno e il due che è al centro di questa capitolo di Qohelet: “E tornai a considerare quest’altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo [è uno, non due], non ha nessuno, né figlio né fratello. Eppure senza fine si affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: «Ma per chi è il mio penare, per chi mi privo di felicità?». Fumo anche questo, misera sorte” (4,7-8). Siamo di fronte ad una pagina stupenda, un vero e proprio distillato di antropologia. Qohelet ci svela un rapporto profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un uomo solo, che lavora troppo, sempre (‘senza fine si affatica’), e la molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. Sta nella non sazietà la chiave di questo verso: la ricchezza che non può essere condivisa non sazia, non appaga il nostro cuore. Alimenta soltanto la fame di vento, e produce il grande auto-inganno che la ricchezza in sé o l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E la giostra continua a girare, sempre più a vuoto.
D’un tratto Qohelet ci fa entrare nell’anima di questa persona, mostrandoci un veloce ma intenso esame di coscienza: ‘ma perché tutta questa fatica per nulla? A chi e a che cosa serve questo folle lavoro che mi sta consumando la vita?’. Se potessimo leggere il diario dell’anima del nostro tempo, di simili esami di coscienza ne troveremmo milioni. La solitudine ‘distorce gli incentivi’ e fa lavorare troppo, perché la soddisfazione nel lavoro diventa un sostituto della felicità al di fuori dal lavoro. Il lavoro che diventa poco a poco tutto distrugge le poche relazioni rimaste, e così si lavora ancora di più. Il tempo di lavoro cresce, torno a casa stanco, non ho voglia di uscire, il ‘costo’ delle relazioni extra-lavorative sale, domani uscirò meno, e lavorerò di più … Poi un giorno può arrivare puntuale la domanda: ‘ma perché e per chi?’. Una domanda che è drammatica quando ce la poniamo per la prima volta a ridosso della pensione, ma che può essere liberatoria se siamo ancora in tempo. Finché siamo abbastanza vivi per porci questa domanda, possiamo ancora sperare: il giorno veramente triste è quello quando rinunciamo a soffrire per la nostra infelicità e ci adattiamo ad essa. Ci convinciamo di star bene nella trappola nella quale siamo caduti, e non chiediamo più nulla, per non morire.
“Meglio due di uno solo, perché se cadranno l’uno farà rialzare il suo compagno. Ma chi è solo, guai a lui, chi lo rialza se cade? Due che dormono insieme si possono scaldare. Ma se uno dorme solo, quale calore? Se uno è aggredito, l’altro con lui fa fronte. Una corda a tre fili non si rompe facilmente” (4, 10-12).
Questa non è una lode dell’amicizia né della spiritualità della comunità. Il suo discorso è più radicale. La vita non funziona se si è soli. Quando restiamo soli siamo fragili, vulnerabili, miseri. Dopo oltre due millenni da queste antiche parole, abbiamo costruito contratti, assicurazioni e coperte termiche per poter fare a meno dell’altro. E così abbiamo dato vita alla più grande illusione collettiva della storia umana: credere di poterci rialzare, proteggere e scaldare da soli. Ma abbiamo anche imparato che non basta essere in due nello stesso letto per sentire calore: non ci sono letti più gelidi di quelli dove si dorme in due, ciascuno immerso nella propria solitudine senza più parole. Non basta essere in due per sfuggire al ‘guai a chi è solo’. Ci sono molte solitudini disperate rivestite di compagnia, e molte compagnie vere nascoste dietro a ciò che ci appare come solitudine.
“Meglio due di uno solo, perché c’è un salario buono per la loro fatica” (4,9). Il salario buono è quello che può essere condiviso. Il senso vero della fatica del lavoro è avere qualcuno che attende il nostro salario. Il salario senza un orizzonte più grande dell’io è un sale senza massa da insaporire. È quello di casa il tempo giusto del buon salario. L’accumulare ricchezza senza che ci sia qualcuno che con questa ricchezza deve crescere, abitare, studiare, essere curato, è fame di vento, è cibo che non sazia, anche quando consumato nei ristoranti a cinque stelle.
Il nostro tempo sta perdendo il giusto tempo del lavoro anche perché ha spezzato il legame tra lavoro e famiglia. Quando i figli non ci sono, quando l’orizzonte del lavoro è troppo corto, è difficile trovare una risposta per la nuda domanda di Qohelet. Ma la nostra società post-capitalistica ha un crescente bisogno di persone senza legami forti di appartenenza, e quindi senza limiti di orario, di spostamento, senza il ritmo dei ‘tempi’ diversi.
Sono questi i dirigenti ideali delle grandi multinazionali. Qualche volta qualcuno si chiede: “perché tanto lavoro, per chi”? Una domanda che può essere l’inizio di una vita nuova. L’offerta di nuovi beni e servizi per accompagnare le solitudini sta diventando ampia e sofisticata con la vendita di beni pseudo-relazionali. Produciamo persone sempre più sole e produciamo sempre più merci per saziare solitudini insaziabili. E il PIL cresce, indicatore delle nostre infelicità, e insieme cresce la domanda insoddisfatta di gratuità.
Ma che cosa accadrà quando questa domanda di Qohelet diventerà collettiva? Quali nuove risposte riusciremo a dare insieme? Ci sarà ancora del sale buono nelle dispense delle nostre imprese, delle città? E se cercando bene negli angoli più nascosti ne troveremo ancora qualche manciata, sarà sufficiente per insaporire le masse? E quel sale avrà ancora sapore?
“Se vedi il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo. Ogni guardiano ne ha sopra un altro, e c’è uno più alto che li domina. Ma anche il re per il suo profitto è servo della terra” (Qohelet 5,7-8).
Giunto a metà del suo discorso, Qohelet ci conduce dentro le dinamiche del potere e delle società burocratiche e gerarchiche. Il suo primo dato è il ‘povero oppresso’, ma invece di pronunciare una condanna morale, ‘ama’ quel povero con la verità, svelandoci una realtà non evidente. Ci dice che coloro che sembrano forti e dominatori in realtà sono vittime di un sistema malato e corrotto. L’occhio smascheratore di Qohelet riesce a vedere al di sopra il povero un’alta piramide di oppressioni, di sfruttamenti, di ingiustizie. Sopra un aguzzino ce n’è un altro che lo opprime, e così via, fino ad arrivare all’ultimo capo, il re, che Qohelet vede ancora ‘servo della terra’. Nemmeno l’uomo più grande e ricco può affrancarsi dalla dipendenza dai ritmi della natura, dalle carestie e dalle calamità, dal tornare polvere e terra come tutti gli Adam: “Dal ventre di sua madre è uscito nudo, e così come è venuto se ne andrà.” (5,14).
In questa descrizione dell’ingiustizia come una piramide sociale di soprusi, ci possiamo leggere molte cose. Innanzitutto Qohelet ci offre la possibilità di avere uno sguardo morale meno severo sull’ultimo aguzzino che opprime il povero, perché quel suo ultimo atto ingiusto di sopruso spesso è originato da altri soprusi di cui egli è vittima a sua volta. Non c’è nessuna giustificazione morale del suo comportamento, ma solo un invito a leggere meglio lo sfruttamento. Quelli che ci appaiono rapporti ‘vittima-carnefice’ sono spesso rapporti ‘vittima-vittima’. Il mondo è popolato di hevel, tutto è un infinito Abele, la terra è piena di vittime: ci aveva detto Qohelet aprendo il suo libro. Ora ci fa vedere vittime anche dove vediamo soltanto carnefici. Da qui derivano tre note importanti: l’aumento delle gerarchie fa crescere il numero di vittime sotto il cielo; sull’ultimo povero oppresso si riversa il peso dell’intera piramide; se vogliamo salvare i poveri dall’oppressione vanno abbattute le piramidi generatrici di vittime. Ieri, e oggi.
Quando oggi vediamo alcune imprese capitalistiche o altre istituzioni gerarchiche, il sopruso o lo sfruttamento non ci appaiono come la loro prima natura. L’ideologia neo-manageriale sta poi sostituendo i rapporti gerarchici con gli incentivi, che ci vengono spacciati come relazioni orizzontali, contratti liberamente scelti da tutte le parti. In realtà, se ci facciamo guidare da quella antica sapienza e cerchiamo di guardare oltre le apparenze ideologiche, scopriamo che dietro un prodotto finanziario scellerato somministrato da un funzionario ad un pensionato, c’è un funzionario di ordine superiore che mette pressione e opprime quel primo funzionario per il raggiungimento di obiettivi dai quali dipendono redditi e carriera di entrambi. E così via, salendo su per i gradini della piramide, fino a trovare in cima uno o più capi ‘servi’ delle oscillazioni di borsa, della geopolitica, dei fenomeni naturali. In quel prodotto-sopruso finale pesa tutta la catena di rapporti sbagliati.
La Bibbia ci invita a sognare una terra nuova, un diritto e una giustizia che non ci sono ancora. Ci dice che il povero resterà ‘oppresso’ e le vittime si moltiplicheranno finché non impareremo a tradurre il principio di fraternità nella governance di imprese e istituzioni.
Dopo questa descrizione della morfologia del potere e della gerarchia, Qohelet torna su uno dei suoi temi forti: la vanità della ricerca della ricchezza, il fumo dell’avarizia: “Chi cerca il denaro il denaro lo affamerà, chi pretende abbondanza trova penuria. Fumo, hevel, è anche questo” (5,9). Una frase che dovremmo porre all’ingresso di tutte le business school, imprese, banche. Quando il denaro da mezzo diventa fine, si trasforma in uno strumento creatore di infelicità infinita, perché lo scopo principale e presto unico della vita diventa il suo accumulo; e l’accumulo, per sua stessa natura, non ha mai fine, è un idolo che vuole sempre mangiare. Non c’è povero più infelice dell’avaro, perché l’aumento del denaro aumenta la sua fame. E poi continua: “Più c’è roba più c’è mangioni e parassiti. E al suo padrone, che cosa resta? Goderne appena con gli occhi. Dolce è il sonno di chi lavora, poco o molto che mangi; ma a un riccone arcisazio è impedito dormire” (5,10-11). Quanta saggezza!
Qui Qohelet ci conduce all’interno di un palazzo mediorientale della sua epoca. Ci mostra un ricco, attorno a lui una pletora di cortigiani e di parassiti che mangiano la sua ricchezza. Tutta e solo infelicità, dei parassiti e del ricco, cui vengono mangiati ricchezza e sonno. Fuori dal palazzo c’è invece un lavoratore, un contadino o un artigiano, che vive del suo lavoro, e fa sogni dolci. Ritroviamo in queste poche parole l’antico ed eterno conflitto tra rendite e lavoro, tra chi vive consumando pane di ieri o di altri e chi vive del poco pane del suo lavoro.
Non è mai stato il lavoro a generare le grandi ricchezze. Queste sono quasi sempre prodotte dalle rendite, cioè da redditi che nascono da qualche forma di privilegio, di sopruso, di vantaggio. E le rendite generano parassiti, consumo improduttivo, da cui non nasce né lavoro né felicità per nessuno.
La ‘sindrome parassitaria’ appare puntuale nei tempi di decadenza morale, quando imprenditori, lavoratori, intere categorie sociali smettono di generare oggi lavoro e flussi di reddito nuovo e investono energie per proteggere i guadagni e i privilegi di ieri. Il parassitismo è una malattia che non ritroviamo solo nella sfera economica. Cadono in questa sindrome, ad esempio, quelle comunità o movimenti che divenuti grandi e belli grazie al lavoro dei fondatori e della prima generazione, invece di sviluppare il patrimonio ereditato con nuovo lavoro, rischio, creatività, iniziano a vivere di rendita, sazi del passato, incapaci di generare ‘figli’ e futuro. La sindrome parassitaria è ancora la principale causa di morte di imprese e di comunità.
Qohelet sta chiaramente dalla parte del lavoro, di chi fatica sotto il sole per guadagnarsi il pane. Ce lo aveva detto (3,12-13), e ora ce lo ripete con più poesia e forza: “Ecco quanto io vedo di buono e bello per l’uomo: la bella felicità di mangiare e bere. … Questo è il suo destino” (5,17). Non c’è altra felicità di quella che possiamo intravvedere nella quotidianità del nostro lavoro, godendone i frutti. Qohelet continua, coerente, la sua polemica contro la religione retributiva ed economica. La benedizione di Dio non sta nella ricchezza e nei beni. Ma, sorprendendoci, ci dice che è possibile che anche il ricco, per una concessione speciale di Dio, possa condividere una ‘parte’ di questa buona felicità: “All’uomo, al quale Elohim concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Elohim” (5,18). È raro, ma non è impossibile: anche il ricco può essere felice, se lavora e riesce a godere della sua fatica.
Ci sono milioni di persone, ricche e povere, imprenditori e casalinghe, che riescono a dare sostanza e felicità alla propria vita semplicemente lavorando. Che vincono ogni giorno la morte e la vanitas riordinando una stanza, preparando un pranzo, riparando un’auto, facendo una lezione. Ci sono certamente felicità più alte di queste nella nostra vita, ma non siamo capaci di raggiungerle se non impariamo a trovare la semplice felicità nella fatica ordinaria di ogni giorno. Ci salviamo solo lavorando. Non per una gioia sentimentale o auto-consolatoria che abbonda nelle penne dei non lavoratori – Qohelet non ci perdonerebbe mai – ma quella che fiorisce dentro la fatica e anche dalle lacrime. Ma Qohelet ci dice qualcosa di ancora più bello: “Egli non penserà troppo ai giorni della sua vita, perché l’Elohim è risposta nell’allegria del suo cuore” (5,19).
Il lavoro è generatore di gioia perché occupandoci in una attività non-vana distoglie il cuore dal ‘pensare troppo’ e male alle vanità pur reali della nostra vita; e perché è lì che ci attende Elohim con la sua allegria. Questa gioia umile non è l’oppio dei popoli, è semplicemente il nostro bel destino.
Se la presenza di Elohim nel cuore è una ‘risposta’ alla buona fatica, se è il primo salario del lavoratore, allora quella gioia che ogni tanto ci sorprende proprio mentre lavoriamo, può essere nientemeno che la presenza del divino sulla terra. Questa, amico Qohelet, è davvero una bella notizia.
Dov’è allora il tuo tanto conclamato pessimismo? Sotto il sole, la gioia nonvana è possibile.