Vi proponiamo lo schema sintetico dell’intervento che l’On. Savino Pezzotta, già deputato e segretario generale della CISL, ha proposto nel corso di una giornata di studio – dal titolo “Il lavoro: dimensione umana e dimensione spirituale” – organizzata dalla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale lo scorso 11 gennaio a Milano.
È difficoltoso oggi parlare di lavoro e soprattutto non parlane in termini ideologici o astratti. Le trasformazioni che coinvolgono il lavoro sono profonde e mutano le tipologie con cui eravamo usi a descrivere le attività lavorative. Per poter parlare di lavoro bisogna fare uno sforzo per cogliere la realtà e cosa realmente sta mutando, soprattutto valutare l’incidenza delle nuove tecnologie (internet, robotica, nanotecnologie) sull’immediato futuro, sull’organizzazione delle attività produttive, le condizioni di vita e le professionalità.
Dopo 10 anni, è tempo di fare un bilancio di come la crisi economico finanziaria abbia inciso sulle condizioni di lavoro e di vita, di come abbia accelerato i processi di innovazione e di cosa ci lascia in eredità. È certo che ha generato molte sofferenze e il crescere delle disuguaglianze. Capire come e su cosa ha inciso è utile e necessario per comprendere dove stiamo andando e se l’attuale modello di economia è confacente alla dignità delle persone. Dobbiamo fare i conti con una generazione che non ha conosciuto altro che un quadro segnato da incertezze.
Il problema dell’Italia è la disoccupazione e l’assenza di una domanda di lavoro adeguata all’offerta. Il problema del nostro presente è il lavoro per le giovani generazioni, se non lo si affronta con rigore finisce per incidere sui rapporti intergenerazionali, sull’andamento demografico e sulla coesione sociale e democratica.
Il sogno di una civiltà del lavoro che aveva animato i nostri anni giovanili sembra essersi evaporato sotto il calore del cambiamento del pensiero politico ed economico che ci ha portato dall’economia sociale di mercato al liberismo e alla favola del mercato che si autoregola, dell’avanzare della globalizzazione, dall’avvio dell’impegno massiccio di nuove tecnologie.
Solo trent’anni fa non saremmo stati in grado di prevedere come sarebbe stato il mondo del lavoro nel 2018. Anzi avremmo pensato che i salari sarebbero aumentati, che le tecnologie avrebbero liberato il lavoro e che il progresso accrescitivo era la condizione. Oggi dobbiamo imparare una nuova grammatica e farci delle domande sul fatto che il mercato del lavoro fatto da inclusi, persone a rischio di esclusione, lavoratori poveri, migranti, occupazioni a tempo determinato, consenta coesione, maggiore uguaglianza e più dignità.
Quando ero un giovane impegnato in parrocchia, su consiglio di un amico sacerdote lessi “La condizione operaia” di Simon Weil, ne rimasi fortemente impressionato e credo che abbia influito sulla mia militanza sindacale. Le condizioni che Simone Weil descrive nell’aver fatto direttamente l’esperienza di fabbrica, erano abbastanza simili a quelle che vivevo come operaio tessile in fabbrica, ma compresi che la mia dignità di persona passava non nel respingere, ma nell’assumere le preoccupazioni dei miei compagni di lavoro, del salario, della disoccupazione, dell’assenza di diritti, la subordinazione, la malattia. Da questa assunzione integrale della situazione in cui vivevo, sono nate le aspirazioni al riscatto. Non ero molto interessato a discutere, come allora si faceva, dell’uscita dal capitalismo ma di come conquistare condizioni di vita più dignitose e libere. Il sindacato era nello stesso tempo strumento e incarnazione di questa volontà di emancipazione umana.
Il sociologo Luca Ricolfi ha proposto una classificazione dei soggetti del mercato del lavoro che mi appare convincente e che è verificabile nella realtà. Il nostro mercato del lavoro sarebbe composto da lavoratori inclusi, a rischio di esclusione, da esclusi, da lavoratori poveri, da precari, da migranti e vi aggiungerei da donne e da giovani. Questa classificazione che evidenzia l’esistenza di ampie aree di disuguaglianza e di marginalità, dimostra che la questione del lavoro è la vera questione sociale italiana. Non bisogna arrendersi alle visioni apocalittiche che preannunciano tempi peggiori, credo che debba prevalere una sorta di ottimismo critico che spinge verso la conoscenza articolate e approfondita della situazione e che non abbandoni il tema delle politiche economiche. Non sono le norme che creano occupazione ma un progetto di investimenti che dia spinte all’innovazione.
La Chiesa italiana e complessivamente il mondo cattolico, liberato da esigenze politiche e partitiche, ha molto contribuito a far sì che la questione del lavoro divenisse parte della pastorale e del suo impegno: Progetto Policoro, interventi delle Diocesi a sostegno delle persone e delle famiglie con disoccupati, a mantenere viva la dimensione della speranza tra i giovani: La settimana sociale che si è tenuta a Cagliari è stata un momento di sintesi e di proposta molto importate che andrà declinato nei territori. Fare del lavoro, anche del nuovo lavoro, dell’uso delle tecnologie elementi per stabilire la dignità della persona è il nuovo impegno che deve mobilitare il nostro mondo e credo sia un modo per ridefinire l’impegno sociale e politico senza nostalgie.
Un giudizio definitivo sull’efficacia dei vari interventi di riforma del mercato del lavoro (Job Act, decontribuzione, incentivi ecc.) sarà possibile solo nel medio periodo, anche se ora registriamo il crescere dei contratti a termine. Le riforme del mercato del lavoro hanno bisogno di essere monitorate costantemente e in relazione ai mutamenti che si verificano nell’organizzazione del lavoro. Ogni valutazione a priori o enfatica è ora sbagliata. Non avrei abolito ma riformulato diversamente la giusta causa nei licenziamenti, la monetizzazione del licenziamento ingiusto non è rispettosa della dignità della persona.
Nel discutere di lavoro non possiamo essere disattenti al fatto che siamo dentro a una rivoluzione produttiva, quella digitale che sta già modificando radicalmente i nostri stili di vita, di lavoro e di relazioni. Non possiamo abbandonarci al pessimismo neoluddista, né lasciarci suggestionare dell’ottimismo tecnologico. Il nostro futuro e quello del lavoro saranno in larga parte definiti dal progresso tecnologico, per cui bisogna che ci poniamo con chiarezza delle domande sulle possibilità che vengono offerte e avere il coraggio di usare le più ampie categorie interpretative per leggere i fatti i primi segni della forma che stanno assumendo nel prossimo o imminente futuro. Dobbiamo cercare di sviluppare un approccio evoluzionistico che è indispensabile per interpretare le trasformazioni. Siamo costretti a cambiare l’esercizio del nostro pensiero.
Bisogna avere la consapevolezza che la ricerca scientifica ci proporrà sistemi ancora più innovativi e sconvolgenti con l’avanzata della biotecnologia e con l’intreccio di elementi “meccanici”, “informatici” e biologici. Cosa questo comporterà sui processi produttivi o dei servizi di cura è ancora tutto da valutare.
La difficoltà a definire in modo monotematico cos’è il lavoro inquieta, ma non deve impaurire anche se chiede di superare molti degli schemi mentali del nostro passato. Per affrontare le questioni sociali, umane e professionali che saranno indotte dai cambiamenti e dalle trasformazioni serve una mentalità aperta e capace di pensare che non esiste un unico modello di economia, ma che più modelli possano convivere e stimolarsi a vicenda. Bisognerebbe andare verso una economia dell’inclusione, in cui i soggetti del lavoro siano dei partner e chi presta la sua opera vale nella distribuzione della ricchezza prodotta quanto gli azionisti.
Papa Francesco ha più volte detto che siamo in un cambiamento d’epoca e le dinamiche che insistono sul lavoro lo dimostrano più di tanti saggi e discorsi. Mi chiedo da povero cristiano che vive la fede intrecciata con molti dubbi e domande, se oggi è ancora possibile una testimonianza di fede dentro il lavoro; se e come ci può ancora aiutare il pensiero sociale cristiano oppure se è il tempo di una sua profonda rivisitazione.