Una riflessione del prof. Stefano Tomelleri, docente di sociologia all’Università di Bergamo.
Nel corso degli ultimi trent’anni, durante il lungo periodo di espansione dell’economia finanziaria, negli anni precedenti al crollo del 2008, nei luoghi di lavoro si è affermata , con le parole di Richard Sennett, la «regola del breve termine»: la ricerca di profitti a breve termine, come ha scritto l’economista Bennett Harrison nel libro Agile e snella: come cambia l’impresa nell’era della flessibilità, ha reso il «capitalismo impaziente». I risultati, il budget, il profitto sono diventati prioritari rispetto ai rapporti umani. Si ignora che il modo con cui si ottengono i risultati è importante tanto quanto i risultati ottenuti.
La nuova scelta temporale di guadagnare sul valore delle azioni anziché sulla salute delle imprese ha modificato il modo in cui sono strutturate le imprese, ma soprattutto il modo con cui le persone lavorano. Le imprese tendono a porsi obiettivi trimestrali o semestrali, invece di pensare nel lungo periodo. Il lavoro è spesso temporaneo, in molti casi a tempo determinato e parziale, espressione di una mentalità del «pronti contro termine» che della flessibilità e dell’abilità a muoversi in transazioni rapide e momentanee ha fatto i suoi fondamenti. I datori di lavoro, i dirigenti o i decisori politici hanno un’enorme responsabilità soprattutto nei confronti di chi ha perso un lavoro o lo sta cercando per la prima volta nella sua vita. L’uso consapevole degli strumenti normativi, come l’apprendistato, o altri contratti, che hanno reso il lavoro flessibile, non devono trasformarsi un modo per approfittarsi delle persone e delle loro legittime aspirazioni, o in uno strumento di mortificazione dell’entusiasmo di chi, attraverso il lavoro, è alla ricerca di una propria formazione personale oltre che professionale.
Un giovane laureato può aspettarsi di cambiare lavoro almeno cinque volte nel corso della sua vita lavorativa e di cambiare anche le tipologia di competenze richieste; le abilità professionali che gli saranno richieste a quarant’anni non saranno più le stesse in cui è stato formato nel percorso di studi. Il modello ideale di lavoratore ricalca quello del consulente, le cui abilità sono flessibili, portatili, il cui legame con un luogo o con le persone è passeggero. È di alcuni anni fa, per esempio, un’interessante pubblicità di una grande compagnia aerea europea per un posto di dirigente per il controllo dei prezzi, che recita: «La persona che cerchiamo è versatile, usa le sue doti per tradurre problemi ambigui in soluzioni trasparenti, possiede un atteggiamento positivo e flessibile e ha il dono di scrivere e parlare con chiarezza, tra le sue ricompense la sfida e lo stimolo intellettuali che derivano dal lavorare con un team di altissimo livello». Grandi doti relazionali e capacità comunicativa, certo, ma sono tutte abilità che hanno ben poco a che vedere con il controllo dei prezzi nell’aeronautica. Si ricercano particolari competenze trasversali o relazionali: “traduzione di problemi ambigui in soluzioni trasparenti”, “possedere un atteggiamento positivo”, “essere flessibili” e “disponibili”, “saper comunicare” in modo chiaro, efficiente ed efficace, “negoziare”, “mediare” e perché no, “saper lavorare in gruppo”.
Queste competenze sono certamente molto preziose in un’organizzazione, ma da sole non sono sufficienti a definire il rapporto tra una persona e il suo lavoro, o ciò che concretamente una persona realizza attraverso la sua opera lavorativa. Si vorrebbe che le capacità e le abilità professionali fossero tutte trasferibili, portatili appunto, mentre in realtà le competenze specifiche nello svolgere un lavoro si acquisiscono nel lungo periodo, nella regola del lungo termine. E in molti casi non si finisce mai di imparare come far bene il proprio lavoro.
Far bene il proprio lavoro richiede tempo, perché un lavoro ben fatto è il frutto di una ricerca continua di qualità e cura di un gesto tecnico in un contesto di persone e di relazioni umane. Il gesto tecnico, qualunque esso sia, richiede ripetizione, consuetudine, abitudine ma anche ricerca di innovazione. La maestria nel lavoro, o l’arte di saper far bene un lavoro, che si coglie nel tocco personale e nello stile, richiede un lungo periodo di maturazione, secondo tempi e ritmi che dipendono anche dalle specificità delle singole persone: la prima fase solitamente corrisponde all’acquisizione della familiarità con gli “arnesi del mestiere”, la seconda fase è invece quella dove si mettono in discussione le abilità acquisite nella precedente, mettendo in relazione conoscenze, sensazioni, esperienze, casualità; la terza fase, quella della maturazione di uno stile personale, si concretizza quando l’“apprendista” si riappropria con una nuova consapevolezza delle abilità acquisite nella prima fase. Questo ciclo di vita del lavoro e del suo apprendimento è tipico, ad esempio, del lavoro artigianale, dove l’arte del mestiere si apprende per tentativi ed errori, grazie a progressive approssimazioni, in una tensione continua tra la tradizione, l’abitudine, la consuetudine del “si è sempre fatto così”, e la ricerca di innovazione, di personalizzazione, di interpretazione soggettiva del “a me piace così”.
Nel lavoro in generale, e in quello artigianale in particolare, si sperimenta che la produzione delle cose materiali rivela qualcosa su noi stessi: le persone possono imparare a conoscere se stesse attraverso le cose che fanno. Per fare, ad esempio, un buon gelato artigianale, occorre prestare attenzione alla qualità delle materie prime, al modo di combinare gli ingredienti, un gelato deve avere la giusta consistenza e struttura e alla fine deve avere un buon sapore e un bell’aspetto, che ci mettano in grado di immaginare categorie di “bello” e di “bontà” più ampie. Non è necessario diventare maestri gelatieri o pasticceri per comprendere che la cultura è anche materiale e che i valori della vita si apprendono in tutte le sue dimensioni. Come ha scritto Primo Levi in La chiave a stella, lavorando in un certo modo possiamo capire anche il nostro rapporto con l’amore come, ad esempio: «l’amore per le cose ben fatte».
La progressiva separazione tra l’ideazione e la realizzazione, tra la teoria e la pratica, tra la testa che progetta e la mano che crea, ha separato ciò che nell’esperienza del lavoro è invece unito. Il tattile, il relazionale, l’emotività fanno parte dell’esperienza lavorativa tanto quanto la razionalità, la conoscenza e il calcolo. Il prodotto del lavoro simboleggia una forma di esperienza unitaria e dinamica, così come l’atto di scrivere, comprende la riscrittura e la revisione, procedere per tentativi ed errori, continue approssimazioni, dove il difficile è lo stimolo, o se vogliamo la sfida di un gioco all’infinito.
L’unità del lavoro è ciò che lo rende uno dei luoghi di apprendimento e di costruzione della persona. Il contesto di lavoro, lo spazio produttivo sono luoghi dove si sperimenta il rapporto con l’autorità, dove i problemi possono essere gestiti nelle relazioni faccia a faccia, dove le abilità tecniche, la competenza, la conoscenza del “capo” sono fonte di legittimazione, dove l’autorità non è l’espressione del potere fine a se stesso, il “comandare per il comandare”, ma frutto di competenze specifiche sul lavoro, è un saper fare autorevole. In certi luoghi di lavoro, si può apprendere la stima e la fiducia nei confronti di chi lavora insieme a noi.
Potente antidoto del risentimento, la stima di sé e degli altri plasma il carattere soprattutto quando si misura con i limiti delle proprie abilità e capacità. Sul lavoro esiste l’onere della prova, quando bisogna saper dimostrare che si sono apprese conoscenze anche a livello tacito, abilità non codificate in parole, i segreti del mestiere. Quando ci si espone all’onere della prova può succedere di dover fare i conti con il fallimento, più che con l’errore, di dover constatare certi limiti delle proprie abilità su cui non si può intervenire. In questa luce, la massima dell’imparare facendo, può diventare una ricetta crudele. Il contesto di lavoro si rivela un’effettiva una scuola crudele se risveglia un senso di inadeguatezza, ma chiunque aspiri a qualche forma di eminenza deve provare il proprio valore agli occhi degli altri.
Proprio per questo il lavoro è anche il luogo dove si apprende la solidarietà, la collaborazione e l’amicizia tra le persone, dove si colgono alcune dimensioni della vita nella sua interezza, nel bene come nel male. Ecco perché ogni impresa, ogni progettazione comunitaria che cerchi di creare lavoro nel lungo periodo e di dare nuova fiducia ai lavoratori, indipendentemente dal profitto a breve termine, sta generando valore umano e sociale, ben al di là del valore meramente monetario di una prestazione.
(da www.generativita.it)