Vi proponiamo l’introduzione del presidente nazionale delle Acli, Robero Rossini, a un documento scritto in vista delle elezioni di marzo (in calce il documento integrale).
Quale Italia vogliamo per noi e per i nostri figli? Come ci immaginiamo questo Paese tra qualche anno? Crescerà? Che casa degli italiani sarà? La politica ha senso quando risponde a domande fatte così, a questioni complesse che coinvolgono la collettività e il suo destino. La campagna elettorale sarebbe lo spazio giusto per confrontare le risposte, facendo tesoro della storia (e della geografia: l’Italia è un Paese che è cresciuto e si è sviluppato anche grazie alla sua collocazione geografica), della capacità di leggere la realtà e di cogliere i segnali di futuro.
Insomma, cosa serve a questo Paese? L’Italia ha tutte le risorse e le opportunità per essere migliore e più giusta, anche quando affronta momenti difficili. In questi anni abbiamo registrato anche dei segnali di risveglio, e in questi mesi anche una lieve ripresa economica. Ma alcuni processi negativi rimangono, anzi permangono, e da anni mettono in crisi lo sviluppo. Dunque non possiamo chiudere gli occhi sulle patologie che rallentano o bloccano lo sviluppo.
Per esempio, l’Italia sta invecchiando e i giovani non trovano lavoro o trovano lavori non sempre adeguati, qualcuno è costretto ad andare all’estero. La scuola e la formazione non sembrano del tutto in grado di rispondere alle esigenze di una ripartenza sociale ed economica. Le diseguaglianze aumentano e l’economia procede per lievi miglioramenti che non necessariamente vanno a beneficio di chi ha bisogno. Infatti i livelli di povertà si mantengono, non accennano a diminuire, neppure per le famiglie. La composizione della ricchezza sottolinea la forza e la stabilità della rendita, che è meno socializzabile del reddito. Si vive più a lungo ma non sempre la qualità della vita è adeguata, le nocività ambientali e la trascuratezza delle periferie sono evidenze della necessità di ripensare perfino lo sviluppo urbano.
A questi problemi come risponde la politica? La politica dovrebbe spiegare che ci sono fenomeni affrontabili nel breve periodo, alcuni nel medio e altri solo nel lungo periodo e persino che alcuni problemi non sono affrontabili neppure nel lungo periodo se gestiti dai singoli Stati, perché sono in balia di condizioni globali (una guerra in Siria piuttosto che nell’Africa subsahariana cambiano rapidamente il quadro). Ma la politica è anche consenso e, senza il mastice del lungo periodo dato dalle ideologie, oggi si trova costretta a gestire il consenso in tempi sempre più brevi, con un elettorato che vorrebbe tutto subito. Il rischio è, di fronte ai problemi, di “bruciare il futuro” e ritrovarsi in uno stato emergenziale che rischia di trasformarsi in uno Stato emergenziale, fondato sul provvedimento temporaneo, incapace di darsi un orizzonte lungo, di accompagnare i processi positivi e di rallentare – se non eliminare – quelli negativi.
Sta mancando una pedagogia della proposta politica, perché sono troppi quelli che hanno una soluzione facile e semplice per ogni problema. Ma ogni problema si connette con un altro e poi con un altro ancora, con tempi più o 4 meno diversi, in una relazione intima che – come ha scritto con straordinaria chiarezza papa Francesco nella Laudato Si’ – ci dimostra che nel mondo tutto è connesso, la povertà con l’ambiente, la criminalità con l’educazione, lo sport con l’economia, la finanza con il territorio… Connettere le questioni è politica: è riacquistare un “pensiero lungo” così necessario alle questioni intergenerazionali, che non sono risolvibili tra un’elezione e l’altra.
E allora: riusciamo a trasformare il dibattito politico in un laboratorio di pensiero politico che sappia orientare il Parlamento su grandi questioni che oggi vanno ripensate? La casa, la scuola, il lavoro, l’assistenza, la sanità, la previdenza… c’è un modo per ripensarli in modo ordinato, nuovo e contemporaneo?
Possiamo scegliere alcuni driver, alcuni fattori, che possono guidare lo sviluppo e su questi avviare una grande opera di ripensamento? Noi ne anticipiamo almeno tre.
Noi riteniamo che l’istruzione e la formazione possano essere un fattore di crescita. Per questo occorrerà avviare uno sforzo eccezionale per la formazione di tutti e la riqualificazione professionale di adulti e disoccupati, per esempio in alcuni settori strategici precisamente identificati. Investire e diversificare gli investimenti su almeno due forme di istruzione e formazione è un processo che può avviare un nuovo percorso per il nostro Paese. Un Paese sviluppato si fonda anzitutto sul capitale umano, sulla formazione dei suoi cittadini. L’istruzione e la formazione costano, ma l’ignoranza rischia di costare ancora di più.
Noi riteniamo che anche il welfare possa essere un fattore di sviluppo. Sicuramente lo è dal punto di vista umano: i percorsi di inclusione sociale aiutano le persone a svilupparsi. La lotta alla povertà è il primo ambito sul quale investire, generando risorse per poter permettere a tutti i cittadini di vivere dignitosamente. Partendo proprio dal Reddito di Inclusione, si potrebbe ricostruire tutta la filiera del welfare in un’ottica solidale e sussidiaria, immaginando che popolazione ci sarà nei prossimi anni, che “Italie” ci saranno, che famiglie costruiremo e che lavoro faremo, nel futuro. E dunque, come tutelare i cittadini del XXI secolo, come semplificare i meccanismi di accesso, quali tecnologie e nuove professionalità serviranno?
Noi riteniamo che il fisco possa essere un fattore dello sviluppo. Un Paese per tutti, nessuno escluso, si fonda sulla promessa di una uguaglianza delle opportunità, indipendentemente dal censo, dalla fortuna, dalla famiglia di provenienza. Perché ci sia un merito più del lavoro e meno della rendita serve un nuovo patto fiscale, dove vi sia più semplificazione e più trasparenza degli obiettivi comuni e più capacità di intervento in settori “dimenticati” (come per esempio le transazioni finanziarie, i colossi del web, le successioni sui grandi patrimoni). Povertà e diseguaglianza non sono un destino ineludibile, se si manovrano le giuste leve. Dove applicare questi fattori? Come sperimentarli? Come applicarli? I luoghi e gli ambiti di applicazione possono essere molti, ma alcuni ci paiono – in questa fase – più decisivi di altri. Eccone cinque.
L’Italia delle famiglie.
L’Italia ama fare famiglia, tenere i legami affettivi sotto lo stesso tetto. Avviare delle politiche affinché le persone possano prendersi cura le une delle altre, perché nessuno sia lasciato solo e in povertà – soprattutto se minore – significa semplicemente accompagnare una tendenza naturale. Fare famiglia è un impegno pubblico, che la Repubblica ha il dovere di riconoscere e tutelare sotto forma di incentivi e di agevolazioni chiari, in termini di formazione, di fisco e di welfare.
L’Italia del lavoro e delle imprese.
Anche questa è un’Italia che esiste e che ha dato luogo allo sviluppo; è quella delle imprese – soprattutto se piccole – della qualità e delle invenzioni: un tessuto capace di creare lavoro e reddito. Questa Italia va facilitata perché possa sperimentare di più, creare più lavoro, essere più interconnessa. Per questo occorrerà pianificare forme di sostegno e d’innovazione all’impresa, con istituti capaci di accompagnare la nasci ta o la trasformazione in alcuni settori merceologici, con incentivi che tengano anche conto dell’area geografica e dell’ambiente, con legami più precisi con l’istruzione e la formazione professionale, con la stabilizzazione del sistema duale, col sistema creditizio, col Terzo Settore, con la capacità di pensare alle tutele del welfare in un’ottica di distretto, di comunità economiche.
L’Italia dei corpi intermedi.
È l’Italia del bene comune, della mediazione, della coesione sociale, della ricchezza e della molteplicità delle attività associative, sindacali, federative, informali, volontarie, attente alla costruzione della socialità, del dibattito pubblico. È un’Italia che c’è sempre stata, di grande tradizione popolare e professionale: un Paese che si unisce, che sperimenta anche la fraternità, per perseguire gli scopi di molti, per non ridursi all’individualismo asettico e impoverito, per formare il cittadino, come ci dice la Costituzione della Repubblica chiamandole – non a caso – formazioni sociali. È l’Italia che dona se stessa per essere meglio se stessa. È un’Italia che va anche sostenuta.
L’Italia dei comuni, delle città.
È la grande bellezza e la grande ricchezza di questo Paese, la storia che ha generato uno straordinario incrocio tra la natura e la cultura. I nostri territori, i borghi e le città sono anche forme d’identità, sono talenti su cui investire non solo per generare reddito, ma per capire profondamente chi siamo. Per questo anche le periferie sono l’occasione per ricostruire un’identità, soprattutto assieme ai tanti soggetti del Terzo Settore. Sul territorio si gioca la mobilità, l’ambiente, la riqualificazione urbana ed edilizia, l’integrazione culturale di luoghi sempre più ricchi di multietnicità, il primo presidio sociale ed educativo e il primo gradino di quella che potremmo chiamare riqualificazione democratica. Inutile ricordare, anche qui, lo straordinario ruolo che può avere una formazione legata al territorio, un fisco per favorire la nascita di nuove attività e i percorsi di inclusione sociale, di riconoscimento dei diritti degli stranieri residenti e lavoranti. Lo ius soli non è ideologia politica: è un scelta giusta e intelligente che aiuterà l’integrazione, la coesione sociale, la scuola e perfino il lavoro, è una scelta da fare con criterio e condivisione.
L’Italia dell’Europa.
L’Italia è stata protagonista di questa straordinaria storia che è l’idea di una grande Europa. L’Italia con più Europa è l’Italia che cerca di modernizzarsi, di favorire la mobilità dei nostri giovani perché possano istruirsi, conoscere, formarsi e fare famiglia e impresa in tutto il continente: perché possano essere tutelati da un modello europeo di welfare con regole comuni per il lavoro e il fisco. L’Europa è l’orizzonte strategico, la grande visione senza la quale ogni politica interna rischia di essere di breve respiro. L’Europa rappresenta anche la nostra più avanzata proposta di pace. Noi crediamo all’Europa perché pensiamo che attraverso essa si possa partecipare allo scenario internazionale con una idea europea di pace. Ormai sarebbe anche il caso di porsi alcune domande sulla produzione delle armi in Europa, uniformando la legislazione, evitando nazionalismi economici e condividendo un criterio con il quale affrontare le sempre più impellenti questioni esterne, quelle nel mondo, in cui l’Europa potrebbe avere un ruolo pacificatore particolarmente importante.
Il richiamo del Presidente della Repubblica ai “ragazzi del 1899”, che andarono in guerra, rispetto ai “ragazzi del 1999”, che quest’anno voteranno per la prima volta, ci dice della responsabilità che la politica ha avuto nel giocare ruoli positivi, almeno per noi europei: non è così in buona parte del mondo. La famiglia, l’impresa, l’associazione, il comune, l’Europa, la persona, ogni persona: sono questi gli ambiti su cui mettere in sicurezza il nostro Paese per sperimentare nuove forme di politica, di economia, di relazione pubblica, ripartendo dal patto fiscale, dal welfare, dall’ampliamento della formazione e dell’istruzione.
Questi cinque ambiti sono i soggetti che possono mettere in sicurezza i nostri concittadini e sui quali progettare per rinnovare i luoghi in cui far abitare il futuro. Inutile dire che il lavoro è filo rosso che tiene legate tutte queste esperienze. Per questo noi proponiamo di creare un fondo dedicato al lavoro che sarà impiegato per finanziare le politiche attive del lavoro, per sostenere le innovazioni e avviare nuove imprese, per accompagnare progetti di crescita che generino innovazione e lavoro, per finanziare la decontribuzione strutturale per i giovani. Un fondo così può essere finanziato attraverso la fiscalità diretta: dopo gli ottimi risultati del 5×1000 e di altre forme simili, noi proponiamo l’introduzione di un 7×1000 esclusivamente per il lavoro, per integrare il finanziamento di un grande progetto per il lavoro, una sorta di Piano Marshall per il lavoro, in particolare dei giovani, partendo già da subito con la decontribuzione.
Saremo pronti per un compito che richiede una significativa volontà politica? In che condizioni politiche è la nostra Repubblica? L’Italia al tempo delle elezioni del 2013 era chiamata a portare a termine il lungo cammino delle riforme istituzionali. Perfino la rielezione – unica nella storia repubblicana – del Presidente della Repubblica veniva giustificata da questa necessità. Ma in questi cinque anni non si è riusciti a portare a termine quelle riforme istituzionali che servivano (e servono) ancora al Paese: evidentemente non sono ancora sufficientemente condivise. In realtà è mancato uno spirito costituente e convergente.
Eppure su molti temi si è cercata e si è operata una riforma o una possibile soluzione positiva: il lavoro e i giovani, la scuola e l’”industria 4.0”, la povertà e l’immigrazione, il patrimonio culturale e storico; il divorzio, il fine vita, le unioni civili… Sono i grandi temi della situazione italiana, di cui il Parlamento e i diversi Governi hanno avuto il merito di occuparsi.
E ora? Quale volontà politica sosterrà i nuovi grandi temi su cui anche noi abbiamo operato alcune proposte? Alla vigilia di queste elezioni – stando ai sondaggi – non sembra si possa delineare una chiara maggioranza parlamentare e la legge elettorale vigente potrebbe non facilitare la costituzione di gruppi coesi, se non all’interno di forti alleanze politiche e programmatiche che, al momento, non sembrano evidenti. Sarà invece evidente che, per costituire delle maggioranze, alcuni partiti oggi avversari saranno presto alleati, a meno di scomposizioni e ricomposizioni, che non sappiamo se augurarci. Attendiamo allora il voto del 4 marzo per capire se ci saranno sorprese o se le sorprese ci saranno successivamente, al momento della formazione dell’Esecutivo, dovendo formare ragionevoli coalizioni per dare al Paese il governo democratico che serve. Il Presidente della Repubblica potrà esercitare la sua funzione di garante per soppesare i risultati elettorali, per mettere in sicurezza il Paese e per avviare processi politici che consentano di accompagnare lo sviluppo attraverso le non trascurabili volontà, talenti e forze che cercano lo sviluppo e il rinnovamento.
Occorre che la politica, una volta passata la competizione elettorale, senta la responsabilità anzitutto di tutelare tutti e ciascuno e, contemporaneamente, di sollecitare un cambiamento all’altezza del tempo che stiamo vivendo. La politica è ancora la dimensione che delinea uno sfondo entro cui collocare le azioni collettive e le azioni individuali. La politica è una cosa seria. Anche noi faremo la nostra parte.
Come abbiamo fatto per la lotta alla povertà e per le tante campagne che in questi anni abbiamo costruito, partecipato, animato – dallo ius soli alla lotta al gioco d’azzardo, dalla difesa civile non violenta alla tassazione delle transazioni finanziarie – non faremo mancare il nostro aiuto. Noi non viviamo i “tempi brevi” della politica: le Acli ci sono. Noi ci siamo, e continueremo a pensare la politica a partire dai più poveri, dagli ultimi, magari – per nostra storia – con una particolare attenzione ai “penultimi”, a quelli che rischiano di impoverirsi. È a partire da queste persone, da queste biografie – che a noi piace chiamare del ceto popolare, a cui sentiamo l’appartenenza – che cerchiamo di immaginare che Italia e che Europa sarà, e soprattutto che popolo italiano ed europeo saremo. Per questo non sprecheremo il nostro tempo a dire qualcosa contro qualcuno o – come scrive efficacemente il Censis – a vivere il rancore e il risentimento. Vogliamo pensare a quale Italia vogliamo, quale idea di Paese abbiamo.
E noi pensiamo ad un’Italia che sente l’appartenenza all’Europa e lavora per realizzare un’Unione europea sempre più unita.
Noi pensiamo ad un’Italia che investe nella formazione, dall’infanzia e per tutto l’arco della vita di ogni suo cittadino.
Noi pensiamo ad un’Italia che lavora, perché tutti i soggetti – pubblici e privati – si impegnano per un’economia che dia a tutti un reddito e una qualità della vita più che dignitosa.
Noi vogliamo un’Italia che non ha paura delle novità, delle culture, dello straniero, dell’incontro, del dialogo, perché sa aprirsi e accogliere con intelligenza, sa valorizzare i talenti, li aiuta persino muoversi in Europa o nel mondo.
Noi pensiamo ad un’Italia che per quanto sia piena di problemi, ipotizza delle soluzioni, le approva e le sperimenta e valuta i risultati.
Noi pensiamo ad un’Italia dei comuni che valorizza il territorio.
Noi pensiamo ad un’Italia che si impegna a rimuovere le condizioni che impediscono la libertà e la partecipazione, perché ha a cuore soprattutto chi è debole, povero, senza famiglia.
Noi pensiamo ad un’Italia che offre a tutti una possibilità, magari anche due o forse anche tre, se serve: che non si stanca di promuovere i suoi cittadini, anche se sbagliano, perché cerca di vederli realizzati o almeno in pace. La politica – scriveva un nostro Presidente – è come la danza, occorre saper tenere il tempo e trovare il tempo giusto.
La politica è il momento giusto: se sa cogliere il tempo e il luogo per affermare un’idea di giustizia sociale. Pertanto in vista del 4 marzo chiediamo tutte le forze politiche di esprimere con chiarezza quale Italia vogliono, con che progetti concreti, con che sogni, con che tempi. E a tutti i nostri concittadini chiediamo di non perdere l’occasione per esserci, per partecipare e votare. Ci sono momenti in cui esserci non è importante: è l’unica cosa che conta.
Qui il documento “Le idee e le proposte delle Acli per le elezioni 2018”.