Si celebra oggi 23 febbraio, primo venerdì di Quaresima, una Giornata di preghiera e digiuno per la pace, in particolare per il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo. L’iniziativa è stata lanciata da Papa Francesco durante l’Angelus di domenica 4 febbraio. Vi proponiamo una riflessione del presidente della C.E.I., pubblicata ieri dall’Osservatore Romano.
Il cristiano «è un “uomo di pace”, non un “uomo in pace”: fare la pace è la sua vocazione». Così scriveva don Primo Mazzolari nel 1955 in uno dei suoi libri più celebri, Tu non uccidere, con cui esortava i cristiani a essere davanti a tutti nello sforzo comune verso la pace, «per vocazione, non per paura». Quel libro era il frutto di una lunghissima riflessione maturata nell’esperienza diretta di due guerre mondiali (la prima trascorsa al fronte come cappellano militare, la seconda vissuta in clandestinità dopo l’8 settembre 1943) e precedeva di alcuni anni l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII che avrebbe segnato l’inizio di una nuova teologia della pace. Oggi, quelle parole del parroco di Bozzolo introducono alla perfezione la giornata di digiuno e di preghiera per la pace indetta dal Papa per il 23 febbraio.
La ricerca della pace è uno degli obiettivi più importanti del mondo contemporaneo. Eppure continua a essere al centro di polemiche ricorrenti. Spesso infatti chi parla di pace viene etichettato sbrigativamente con una parola dal sapore amaro: buonista. Un termine abusato che si è ormai trasformato in un epiteto spregiativo — quasi un sinonimo di pavido, stolto, traditore — che viene assegnato con superficialità.
Si tratta, però, di una contraffazione della realtà. È vero il contrario. Chi si sforza per costruire un mondo di pace, in cui venga riconosciuta ovunque la dignità della persona umana, è invece un eroe dei nostri giorni. Perché lottare per la pace può significare anche dare la vita. È il caso, ad esempio, del sacerdote tedesco Max Josef Metzger, ghigliottinato dai nazisti nell’aprile del 1944 proprio perché predicava la pace, e che venne ricordato da don Mazzolari nel suo libro come «prete e martire». In una lettera scritta dal carcere al Papa nel 1944 Metzger si domandava: «Se l’intera cristianità avesse fatto una potente, unica protesta, non si sarebbe evitato il disastro?». E inoltre era solito ripetere: «Noi dobbiamo organizzare la pace, così come gli altri organizzano la guerra».
Ecco la sfida di oggi: organizzare la pace e dare testimonianza che questa è un’autentica vocazione cristiana. La pace va costruita, prima di tutto, nella vita quotidiana: la recente sparatoria in una scuola della Florida dove sono morte 17 persone, è la spia di una società percorsa da un’inquietante scia di rancore e violenza. La pace va poi organizzata nella vita politica: le ultime campagne elettorali nelle più importanti nazioni del mondo sono state caratterizzate da lacerazioni profonde, scontri frontali e spesso da un linguaggio violento. E infine la pace va organizzata nella vita internazionale: nella Repubblica democratica del Congo, nel Sudan, nella Siria continuamente martoriata da una guerra feroce che ormai da quasi sette anni ha fatto mezzo milione di vittime e milioni di sfollati e profughi.
Basta una sola statistica per comprendere l’orrore dei conflitti. Il 2017, secondo una stima dell’Unicef, è stato un anno terribile per i bambini che vivono nelle zone di guerra: oltre 27 milioni sono stati costretti ad abbandonare le scuole e moltissimi sono stati utilizzati come soldati, come «scudi umani» e addirittura come «armi non convenzionali».
In questo scenario spaventoso emerge con forza la domanda del Papa che interpella tutti: «Che cosa posso fare io per la pace?», cosa possiamo fare «concretamente» per dire «no alla violenza» e alla guerra?
La prima risposta è ispirata dal comandamento di Dio: non uccidere. Non uccidere moralmente chi è diverso; non uccidere politicamente l’avversario; non uccidere con la forza delle armi in ogni controversia internazionale. In nessun caso, infatti, il realismo può confondersi con il cinismo. E i ragionamenti colti degli analisti non possono fornire alibi ai professionisti della guerra. Perché, in definitiva, come scriveva don Mazzolari, «non uccidere, per quanto ci si arzigogoli sopra» significa soltanto una cosa: «Tu non uccidere».
(da L’Osservatore Romano, 22-23 febbraio 2018)