di Matteo Truffelli
Vi proponiamo il testo integrale dell’intervento di Matteo Truffelli, presidente dell’Azione Cattolica Italiana, tenuto nell’ambito della tavola rotonda: “Ai liberi e forti: un secolo dopo” promossa dall’Istituto Luigi Sturzo (17 gennaio 2019 – Istituto Sturzo, via delle Coppelle 35 – Roma).
Ringrazio l’Istituto Sturzo per avermi invitato in questa occasione solenne, invito che ritengo mi sia stato rivolto non solo come studioso ma anche come presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana. Un’associazione a cui come sappiamo è legata in maniere indissolubile la vicenda personale e politica di don Sturzo, che approdò alla costituzione del Partito Popolare proprio nelle vesti di Segretario della Giunta centrale dell’Azione Cattolica dell’epoca.
Ho voluto ricordare questo dato storico perché già da solo richiama l’attenzione su un aspetto decisivo dell’iniziativa politica sturziana, su cui vorrei incentrare il mio breve intervento: il fatto che con l’Appello ai liberi e forti si realizzò, dopo un travagliato e non del tutto compiuto cammino, il primo effettivo approdo dei cattolici italiani alla democrazia. L’assunzione, cioè, del metodo democratico come forma legittima e anzi auspicabile di confronto politico. Una posizione che, come sappiamo, il magistero farà propria in maniera esplicita solo molti anni più tardi, e solo dopo aver attraversato la tragica esperienza dei totalitarismi. In modo parziale con il Radiomessaggio natalizio del 1944 di Pio XII, e in forma compiuta con il Concilio Vaticano II.
Sarà il Concilio, infatti, a compiere un passaggio decisivo per pensare e praticare la democrazia, l’accettazione del pluralismo. Un principio che non era affatto semplice da metabolizzare per il pensiero politico cattolico dell’epoca: approdare alla lotta democratica significava accettare di confrontarsi con le differenti posizioni ideali e le diverse scelte politiche su di un piano di pari dignità. Sturzo ne era pienamente consapevole, e lo aveva spiegato egli stesso con assoluta chiarezza fin dal 1905, nel celebre discorso di Caltagirone, quando aveva ricordato che per incidere nella vita politica del Paese i cattolici avrebbero dovuto accettare l’idea di divenire “parte”, di collocarsi cioè sullo stesso terreno di «socialisti, liberali o anarchici, moderati o progressisti», assumendo l’onere di confrontarsi con essi «con le armi moderne della propaganda, della stampa, dell’organizzazione, della scuola, delle amministrazioni, della politica».
Occorreva, in sostanza, adeguarsi fino in fondo alle regole del confronto democratico, con tutte le conseguenze che questo comporta, cogliendone il valore intrinseco e sapendosi fare promotori e custodi di esse. É la battaglia che Sturzo condurrà con il Partito Popolare, prima nel tentativo di rendere più democratico lo Stato liberale e poi nello sforzo di difenderlo dallo svuotamento delle istituzioni democratiche operato dal fascismo. Una lezione di cui potrebbe sembrare inutile sottolineare la validità e l’importanza, dato il tempo trascorso e i molti eventi che si sono succeduti da allora, ma che invece, almeno a giudicare da alcuni aspetti del confronto politico e culturale dentro cui ci troviamo quotidianamente immersi, non pare affatto di poter dare semplicemente come un dato scontato, acquisito una volta per tutte. Non è così.
Vi era poi, per la cultura politica cattolica dell’epoca, un altro aspetto per il quale il principio del pluralismo chiedeva di essere accolto, con implicazioni forse ancora più cariche di significato e, proprio per questo, più difficili da accettare. Si trattava, cioè, di ammettere che all’interno del corpo ecclesiale potessero legittimamente esistere posizioni tra loro divergenti, pur se limitatamente all’ambito politico: una prospettiva resa praticabile dalla consapevolezza che l’impegno politico appartiene, per sua natura, al piano della laicità. Anche sotto questo profilo Sturzo seppe esercitare uno sguardo lungimirante sulla realtà, capace di anticipare i progressi del magistero.
Era questo il terreno su cui si radicava la convinzione sturziana di dover dare vita a un partito di natura aconfessionale. Solo una formazione politica che avesse stabilito fin dalla propria nascita di non rinchiudersi dentro il perimetro dell’identità confessionale, pur ammettendo esplicitamente di ispirarsi «ai saldi principi del cristianesimo», avrebbe potuto «chiamare a raccolta quanti, senza nulla attenuare delle proprie convinzioni religiose da un lato, e senza menomazioni esterne nell’esercizio della vita politica e civile dall’altro, potessero convenire in un programma e in un pensiero politico, non di semplice difesa, ma di costruzione, non solo negativo ma positivo, non religioso ma sociale».
Non a caso l’Appello lanciato il 18 gennaio di un secolo fa era rivolto non ai cattolici, ma appunto, come sappiamo, a «tutti gli uomini liberi e forti». Cioè a tutti quei cittadini «moralmente liberi e socialmente evoluti» che sentivano «alto il dovere di cooperare ai fini supremi della patria, senza pregiudizi né preconcetti». Un’altra grande lezione, che conserva intatta tutta la sua validità e sembra avere, oggi, una particolare valenza di attualità: la consapevolezza che per realizzare «nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà» occorre cooperare con tutti coloro che hanno la stessa ambizione, occorre mettere insieme energie e risorse morali, aspirazioni ideali e capacità operative di tutti coloro che mirano alla costruzione di una società migliore.
Come si è accennato, del resto, questo non comportava per Sturzo, e per i popolari che con lui firmarono l’Appello, alcuna rinuncia a interpretare la propria azione politica come un tentativo di tradurre in scelte concrete il patrimonio ideale e morale rappresentato dai principi evangelici. Al contrario, era proprio questo che li muoveva. Tutto ciò comportava naturalmente il generarsi di una inevitabile tensione tra il piano dell’ispirazione ideale e quello delle realizzazioni storicamente contingenti, tra la natura cogente dei principi morali a cui ci si sentiva ancorati e l’inadeguatezza delle concrete scelte possibili.
Si tratta, come ben sappiamo, di una condizione che è di tutti i credenti: un’esperienza perenne, che si radica nella natura paradossale dell’esistenza cristiana. Ma questa condizione acquista indubbiamente ancora più pregnanza in chi vive la propria fede come sorgente di impegno politico. La volontà di mantenere alta la tensione ideale e la coerenza pratica della propria azione politica e, contemporaneamente, l’ineludibile necessità di districarsi nella complessa trama di condizionamenti e limitazioni che la politica, inevitabilmente, frappone all’effettiva possibilità di realizzare in maniera compiuta obiettivi elaborati alla luce di un’ispirazione così alta come quella derivante dal Vangelo, non possono che dare vita a uno scarto drammatico e, per molti versi, mai del tutto superabile.
Tanto le testimonianze di chi fu vicino a Sturzo quanto i suoi scritti pubblici e privati lasciano chiaramente trapelare in che misura il sacerdote calatino sperimentasse questa drammatica tensione, e come essa venisse assunta alla luce di una fede solida, incarnata, e consapevolmente coltivata. Nella vita di Sturzo, infatti, dimensione religiosa e dimensione politica – e, potremo dire, le due vocazioni, quella presbiterale e quella sociale – si fusero tra loro, rimanendo inestricabile connesse anche quando, fatalmente, esse entravano in contrasto. Anche negli anni del più intenso impegno pubblico, in fondo, Sturzo rimase sempre innanzitutto un prete, rigorosamente fedele ai doveri del proprio ministero e fortemente ancorato a una vita di preghiera curata con rigore. Il suo impegno pubblico, dunque, fu sempre nutrito dal costante radicamento in una fede vissuta in profondità, così come il suo ministero presbiterale fu sempre intessuto di passione politica.
Questo significò anche, in più occasioni, accettare di pagare un altissimo prezzo personale per la propria fedeltà alla Chiesa e alla coscienza. Anche in questo, come negli altri aspetti del suo pensiero e della sua opera che ho solo sommariamente richiamato, mi sembra che si possa intravedere, oggi, il profilo di un insegnamento di enorme attualità per il nostro tempo, per i credenti di oggi e, più in generale, per tutti i cittadini e gli uomini politici italiani.