Nel giorno dell’anniversario della morte di padre Pino Puglisi, vi proponiamo ampi stralci dell’Indirizzo di saluto al Santo Padre di Mons. Corrado Lorefice, pronunciato due anni fa nel Duomo di Palermo.
Santità, oggi Lei ci incontra in questa Cattedrale, dove è custodito il corpo del Beato martire padre Pino Puglisi, figlio speciale di questa Chiesa palermitana, di questo presbiterio, ucciso dalla mafia perché fedele al Vangelo, povero di tutto, anche della vita, per consegnare incessantemente il Vangelo ai più piccoli e alle nuove generazioni. Don Puglisi come sacerdote era un uomo compiuto, plasmato dal Vangelo; viveva con serenità e bellezza il suo celibato, appagato pienamente dal dono totale di sé. Per questo la sua testimonianza presbiterale era efficace, attrattivo il suo sacerdozio, senza nessun alone di moralismo e di supponenza sacrale. Adorava, onorava e serviva Gesù presente nel Vangelo proclamato, nel Pane spezzato e nei Poveri delle comunità che ha servito lungo il suo ministero presbiterale.
Non c’è servizio nella Chiesa, non c’è ministero ordinato che possa prescindere da questa realtà fondamentale, quella di una umanità libera, serena, gioiosa, la stessa manifestataci da Gesù di Nazareth nella sua vita in mezzo a noi. È questo, credo, uno dei significati più forti del cambiamento di prospettiva posto dal Nuovo Testamento rispetto all’Antico a proposito del sacerdozio. Superare la sacralità, la ‘distinzione’ con i suoi segni espliciti, voleva dire per i primi autori cristiani riportare il servizio di guida del popolo alla concretezza del discepolato, alla radicalità del nostro essere anzitutto donne e uomini posti alla sequela del Signore.
Oggi siamo chiamati – come Lei ci ricorda – ad una «conversione pastorale e missionaria» (EvG 25). Dobbiamo cioè, ri-volgerci al nostro gregge, agli altri, ai nostri fratelli, per essere pastori. Pastori di una «pastorale dell’orecchio», di un ministero dell’ascolto: delle gioie e delle sofferenze, delle fatiche e dei desideri, dei segni di novità e delle criticità dei giorni che viviamo (cfr. Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962). Disponendoci, come Lei ci ha insegnato, davanti al nostro popolo, per guidarlo e indicargli il cammino; ma anche in mezzo, per mantenere il gregge unito negli sbandamenti; e pure in coda, dietro a tutti, per raccogliere gli ultimi, per far sì che nessuno rimanga indietro. Senza pretese di dominio, perché nell’ascolto impariamo le strade nuove e promettenti proprio dalle sorelle e dai fratelli che ci sono affidati. Sono loro ad avere quel fiuto che la tradizione ha chiamato ‘sensus fidei’ e che è il criterio ultimo dell’autenticità di ogni magistero.
Ecco, sensus è un’altra parola chiave per il nostro ministero. Non siamo chiamati ad essere gelidi razionalisti, maestri di logica o di morale, bensì madri e padri calorosi, toccati nell’intimo dalla commozione degli splanchna – delle «viscere materne» di Dio – provata da Gesù davanti alla folla smarrita. Qualcosa vibra dentro, nell’utero delle madri. ‘Nun po stari’, si dice in siciliano per indicare una inquietudine indominabile e viscerale, perché una madre ‘non può stare’ quando sente, anche a distanze siderali, la sofferenza e la fatica dei suoi figli. Ecco, Papa Francesco, Lei ci ha richiamati a questo: a fare i conti con la rivoluzione della tenerezza che discende direttamente dal Vangelo, e che ci chiede di essere donne e uomini di misericordia, di prossimità e di affetto.
Donne e uomini della relazione, del dialogo instancabile. Come Lei ha sintetizzato: discepoli, profeti e pastori. Perché non abbiamo nessuna ragione da far valere, nessuna dottrina astratta da difendere, ma l’amoris laetitia, la letizia dell’amore, da annunziare e da portare con dolcezza. Ecco il senso della predicazione, che vogliamo sia liberante e fresca come il Vangelo; della Confessione, che intendiamo con Lei come epifania del perdono, ascolto umile e mai giudicante, annunzio della misericordia di Dio per l’uomo peccatore; della celebrazione dell’Eucaristia, come mistero della prossimità di Dio, del suo essersi coinvolto con noi, con l’odore, con la ‘puzza’ delle sue pecore, di ogni luogo e di ogni tempo, «fino alla fine» (Gv 13, 1), fino all’estremo dell’amore. Che vuol dire rincorrere l’altro anche quando intraprende strade sbagliate, vie impervie; significa ‘perdere il tempo’ con chi vuole fuggire, con chi non ce la fa a restare, mettendo anche in conto il fallimento, l’incomprensione e forse anche l’avversione. E tutto questo – come Lei sempre ci ricorda – in quello spirito di comunione e di fraternità pastorale che è un’ascetica capace di donare ricchezza, e che è elemento integrante della spiritualità dei preti e delle fraternità presbiterali.
(Fonte Arcidiocesi di Palermo)