Proponiamo il testo di un interessante intervento che Mons. Arcivescovo ha tenuto, lo scorso 30 marzo, nel corso di un incontro con il personale della Fondazione Cardinale Maffi di San Pietro in Palazzi.
Come ogni anno, abbiamo iniziato il cammino quaresimale, con l’ascolto, nella liturgia della prima domenica di Quaresima, del racconto delle tentazioni di Gesù, quest’anno con il testo di Matteo (4,1-11).
Matteo ci dice che Gesù “fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo”(….) “Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: Se sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane. Ma egli rispose: Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra. Gesù gli rispose: Sta critto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, e gli disse: Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai. Allora Gesù gli rispose: vattene, satana! Sta scritto anche Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano”.
Gesù è condotto nel deserto per esservi tentato per 40 giorni come il popolo di Israele vi fu tentato per 40 anni ed incontra tre tentazioni sottolineate da tre citazioni riprese da Deuteronomio 6-8, capitoli dominati dal comandamento dell’amore per Dio. Secondo la tradizione ebraica possono essere interpretate come tentazioni contro l’amore di Dio, valore supremo: non amare Dio “con tutto il tuo cuore”; non amare Dio “con tutta la tua anima”; non amare Dio “con tutte le tue forze”. Alla fine Gesù si dimostra come colui che ama Dio, il Padre, in modo perfetto.
Questa triplice tentazione ci fa venire in mente ciò che afferma l’evangelista Giovanni nella sua prima lettera quando parla della triplice concupiscenza: “Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo – la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita – non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”(1Gv 2,15-17).
La tentazione è sempre qualcosa che sta accovacciata alla porta del cuore. Nella Genesi, Dio che non aveva gradito il sacrificio di Caino, gli si rivolge dicendo: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”(Gen 4,6-7).
La presenza della tentazione e del peccato nella vita personale e sociale è un dato di fatto, del quale però non sempre abbiamo coscienza. Anzi, in una cultura sbriciolata come la nostra, in cui l’ ideale che viene presentato e a volte quasi imposto, è quello della libertà individuale eretta a sistema e dei desideri più impensabili camuffati come bisogni indispensabili, diventa sempre più difficile saper distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto e il vero dal falso. Quando poi la pressione sociale e culturale diventa massificante al minimo riguardo ai valori e alle motivazioni che dovrebbero presiedere alle scelte che andiamo facendo, è ovvio che la tentazione di lasciarsi portare dalla deriva spirituale e morale diventa quanto mai pesante e coinvolgente. Per cui, anche con le migliori intenzioni, si corre il rischio di “fare come fanno tutti”, senza più interrogarsi se quello che fanno tutti o ci sembra che tutti facciano, è vero, buono e giusto.
E’ in questo modo che la tentazione oltre che ad essere un pericolo per la singola persona, oggi è più che mai un pericolo che sta insidiando dal di dentro anche l’intera compagine sociale. Senza voler entrare nei particolari, si può dire in tutta verità che la devastazione che ne deriva è sotto gli occhi di tutti. La cosa che preoccupa di più è che non si tenta neppure di indagarne le cause, e difficilmente si afferma che la radice di questa devastazione è nella rinuncia diffusa e condivisa a rivedere la propria condotta di vita, chiamando il male con il suo nome e mettendo in gioco uno stile di vita che sappia ritornare a considerare di nuovo il valore della coscienza e la sua formazione in base a norme di comportamento che non siano solo il risultato del sentire sociale, o meglio dell’egoismo individualista, che è diventato il cancro della vita collettiva, ma di quelle 10 Parole – i 10 comandamenti – che non passeranno mai e che si sintetizzano nell’amore per Dio e nell’amore per il prossimo.
Un indice di questa situazione che coinvolge tutto il vivere personale, familiare e sociale e che ormai rischia di condizionare in maniera subdola anche la vita e l’azione di chi vive l’esperienza ecclesiale e qualche volta anche le stesse istituzioni ecclesiastiche, ci viene descritto in maniera esplicita in una serie di numeri della Esortazione Apostolica di Papa Francesco, Evangelii Gaudium, che hanno per titolo: “Tentazioni degli operatori pastorali” (nn. 76-109).
E’ ovvio che voi, in prima battuta, non siete certo degli operatori pastorali, perché all’interno della Fondazione voi non siete né catechisti, né ministri straordinari della Comunione, né animatori liturgici; però, sempre all’interno di questa Fondazione, che è emanazione della Chiesa pisana e che si ispira alla Dottrina sociale cattolica, proprio vivendo la vostra professionalità e realizzando il vostro specifico servizio di assistenza, di amministrazione, di coordinamento e di direzione, al di là delle vostre personali convinzioni che potrebbero pure non condividere totalmente l’esperienza della fede cristiana, siete comunque inseriti in un contesto che non può non esprimere la pienezza dell’umanesimo cristiano che è l’identità più preziosa della nostra istituzione, che lo ripeto, è espressione della Chiesa e manifestazione della passione evangelica per il servizio ai più fragili e ai più deboli.
Per questo, nel panorama culturale odierno, anche noi in questa nostra Fondazione occorre vigilare per non lasciarci travolgere da una serie di tentazioni che possono inquinare e impoverire il nostro servizio e la nostra testimonianza.
Il Papa mette in guardia dal pericolo dell’individualismo, della crisi di identità e del calo del fervore con cui si fanno le cose e che sono “tre mali che si alimentano l’uno con l’altro”(EG 78). Tre pericoli sui quali ci siamo già soffermati in altri incontri sia in questa sede che nelle giornate di San Cerbone. Una istituzione come la nostra si regge proprio sul contrario dell’individualismo e cioè su una forte esperienza di condivisione e di collaborazione; ha il suo fondamento sulla consapevolezza della propria identità ecclesiale e del proprio strutturale riferimento al messaggio evangelico; non potrebbe andare avanti e soprattutto non offrirebbe certamente un buon servizio, se in tutti coloro che ne vivono l’esperienza non ci fosse quel di più che non è proporzionale allo stipendio, bensì è espressione e frutto di quelle motivazioni interiori che il Papa identifica con il termine “fervore”.
Per tenere a bada questi tre mali che stanno invadendo tutto il vivere sociale occorre essere consapevoli che c’è bisogno di combattere prima di tutto quella “cultura mediatica e qualche ambiente intellettuale che trasmettono una marcata sfiducia nei confronti del messaggio della Chiesa e un certo disincanto”(EG 79). Se un tempo il dibattito culturale poteva anche assumere i toni di una ferocia incredibile, oggi, venuta meno la capacità di ragionare, di dibattere e di confrontarsi, si è affermata in maniera sempre più pesante la modalità della demolizione di chi la pensa diversamente (chiamata anche rottamazione). Lo si fa con le auto e con gli elettrodomestici invecchiati per i quali si mettono a disposizione non pochi incentivi; lo si fa anche con le idee che sembrano aver fatto il loro tempo, ma lo si fa anche e soprattutto con le persone.
Non dimentichiamo che anche le nostre strutture si trovano a subire questa “violenza” culturale che è pure violenza verso i più fragili, quando si vede chiaramente che a volte chi entra nelle nostre strutture vi viene “depositato” come si depositerebbero mobili vecchi in qualche “isola ecologica”. Simili atteggiamenti si riscontrano anche in rapporto a tematiche emergenti sul piano sociale come per la presenza di profughi o l’integrazione degli stranieri nel nostro tessuto sociale. Anche per questo problema ciò che fa difetto è la capacità di ragionamento e soprattutto la conoscenza reale delle situazioni. A questo proposito potrei citare ciò che è accaduto il 7 marzo a Pisa con la contestazione della Cittadella della Solidarietà che si è sintetizzata in uno slogan: “Basta carità!”.
Il Papa chiama tutto questo “relativismo pratico, ancor più pericoloso di quello dottrinale” e che “ha a che fare con le scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita. Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse, decidere come se i poveri non esistessero, sognare come se gli altri non esistessero, lavorare come se quanti ci circondano non esistessero”(EG 80). In questo clima individualistico ciò che cresce è una vera e propria “desertificazione spirituale, frutto del progetto di società che vogliono costruirsi senza Dio o che distruggono le loro radici cristiane”(EG 86).
In altre parole il problema di fondo che stiamo vivendo è sostanzialmente questo: Dio ha ancora senso e posto nella società che sta emergendo oggi? Che cosa può comportare l’eclisse di Dio nella società degli uomini? Quali potranno essere i punti di riferimento valoriali per un uomo che non riconosce più in sé la propria somiglianza con Dio? Può un uomo senza questa somiglianza che lo fa immagine di chi gli sta accanto e che rende chi gli sta accanto un altro se stesso, avere punti di riferimento valoriali che gli consentano una vita personale e sociale degna di essere vissuta? Se la consistenza delle persone è dovuta solo alla loro efficienza, bellezza, prestanza e gioventù, perché continuare ad assistere quelli che per questo tipo di società sono solo degli “scarti”? Perché mai lamentarci se oggi il tasso di natalità si sta abbassando sempre più, quando nello stesso tempo si favorisce l’idea che un figlio non è il segno di un dono d’amore, ma è il prodotto di consumo per soddisfare desideri sempre più scompaginati?
Quando il Papa parla di “desertificazione spirituale” non lo fa solo per lamentare il vuoto interiore che si sta creando nel panorama mondiale, bensì per affermare che “è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si torna a scoprire il valore di ciò che è essenziale per vivere, così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso manifestati in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indichino la via verso la Terra promessa e così tengono viva la speranza. In ogni caso, – aggiunge Papa Francesco, – in quelle circostanze siamo chiamati ad essere persone-anfore per dare da bere agli altri. A volte l’anfora si trasforma in una pesante croce, ma è proprio sulla Croce dove, trafitto, il Signore si è consegnato a noi come fonte di acqua viva. Non lasciamoci rubare la speranza”(EG 86).
Come spesso ci dice l’esperienza, proprio quando “tocchiamo il fondo” e vengono meno le certezze umane sulle quali avevamo pensato di costruire il nostro vivere, ci si accorge che ci sono altri valori e altre certezze che rimangono e che anzi si ravvivano come prospettiva di vita più sicura e più vera. E’ a questo punto che si ritrova quella spinta interiore che ci permette di rialzarci e di impostare un modo nuovo di espressione personale e sociale. E’ l’esempio che ci viene dalla vita dei tanti santi della carità che hanno riempito la storia della Chiesa. Penso ad esempio a San Vincenzo de’ Paoli, a San Giuseppe Benedetto Cottolengo, a San Giovanni Bosco o in tempi più recenti a Santa Teresa di Calcutta. Nella loro vita, come nella vita di tantissimi testimoni della carità, il cambiamento è venuto proprio nel momento nel quale si sono imbattuti in necessità che sembravano insormontabili, toccando il fondo della abiezione o della fragilità umana, e proprio perché attenti alla voce dello Spirito Santo e alla parola del Vangelo, hanno saputo guardare oltre l’ostacolo, e mettendosi in gioco con le capacità e le forze che avevano in quel momento, si sono rimboccati le maniche, riuscendo ben presto a coagulare intorno al progetto di carità che andavano evidenziato tante altre persone, pronte al dono di sé finanche al sacrificio.
Non ci deve meravigliare questa coagulazione di forze, perché l’amore è solo capace di generare amore, così come l’egoismo è solo capace di generare altro egoismo. “Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in se stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo”(EG 87). “Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia contagiosa in un costante corpo a corpo”(EG 88). Questa disponibilità all’incontro con Dio e con il prossimo – con il prossimo nel nome del Cristo – ci aiuta a vincere la tentazione a farci guerra tra di noi.
“Il farci guerra tra di noi” è un’altra tentazione che il papa ci prospetta dicendo: “All’interno del Popolo di Dio e nelle diverse comunità, quante guerre! Nel quartiere, nel posto di lavoro, quante guerre per invidie e gelosie, anche tra cristiani! (…) Siamo sulla stessa barca e andiamo verso lo stesso porto! Chiediamo di rallegrarci dei frutti degli altri, che sono di tutti!” (EG 99).
Concludo con le parole stesse di Papa Francesco: “Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che cosa buona è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto! A ciascuno di noi è diretta l’esortazione paolina: Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rm 12,21). E ancora: Non stanchiamoci di fare il bene. (Gal 6,9). Tutti abbiamo simpatie e antipatie, e forse proprio in questo momento siamo arrabbiati con qualcuno. Diciamo almeno al Signore: Signore, sono arrabbiato con questo, con quella. Ti prego per lui e per lei. Pregare per la persona con cui siamo irritati è un bel passo verso l’amore, ed è un atto di evangelizzazione . Facciamolo oggi! Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!” (EG101)