Pubblichiamo la Lectio divina di Gv 8,1-11 proposta da Sabino Chialà, monaco della Comunità di Bose, nel corso del recente Convegno nazionale delle Caritas diocesane, “Per uno sviluppo umano integrale”, 27-30 marzo, Castellaneta (TA).
1Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. 2Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. 3Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e 4gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. 6Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. 7Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. 8E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. 10Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. 11Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”.
La scelta di questo brano suggestivo, ma problematico a motivo della sua storia e della sua collocazione, nasce dalla convinzione che la carità, prima che azione, sia sguardo e prospettiva. La carità, come servizio in vista dello sviluppo dell’uomo integrale non può prescindere dal guardare. Ciò è vero perché non ci si può prendere cura di qualcuno se non lo si guarda. Ma, come vedremo, non si tratta solo di dirigere uno sguardo, bensì, anche, di porsi in una prospettiva anziché in un’altra.
Per vivere la carità, è necessario esercitarsi nell’arte del guardare. Arte per la quale l’insegnamento di Gesù è quanto mai prezioso. Gesù: un uomo che, stando alla testimonianza dei Vangeli, ha mostrato una straordinaria capacità di visione, e dunque di azione, per il bene dell’altro, per la vita e non per la morte.
Quante volte nei Vangeli si sottolinea che le azioni di Gesù seguono il suo “vedere”? Quante volte quel “Gesù vide”? Vide e dunque agì. Vide Pietro e Andrea, e poi Giacomo e Giovanni e ancora Matteo-Levi (cf. Mt 4,18-22; 9,9), e li chiamò; vide la suocera di Pietro febbricitante e la prese per mano (cf. Mt 8,14-15); vide una gran folla e ne ebbe compassione (cf. Mt 14,14); vide l’uomo cieco dalla nascita e gli aprì gli occhi (cf. Gv 9,1).
Ma dove il verbo mostra tutta la sua pregnanza e centralità è nel Vangelo della misericordia, il Vangelo secondo Luca, dove le tre ricorrenze del verbo σπλαγχνίζομαι (muoversi a compassione) sono sempre immediatamente precedute dal verbo “vedere”: Gesù vide la vedova di Nain e ne ebbe compassione (cf. Lc 7,13); il Samaritano vide il malcapitato e ne ebbe compassione (cf. Lc 10,33); il padre dei due figli vide il figlio minore nella sua lontananza e ne ebbe compassione (cf. Lc 15,20). La compassione è possibile perché c’è la visione.
Dice bene don Angelo Casati: “Il Vangelo, se letto nella sua verità, diventa un’educazione a ‘vedere’”[1].
Vedere è quindi il primo atto della carità, ciò che può smuovere una carità autentica. Una carità che emerga come esigenza profonda, piuttosto che come imperativo etico. La responsabilità del vedere, del non chiudere gli occhi, del non occultare, a rischio anche di scandalizzare.
Ricorderete ancora tutti la polemica scoppiata più di un anno fa intorno alla pubblicazione della foto del piccolo Aylan, il bambino kurdo di Kobane, trovato morto sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre 2015; e la polemica, analoga, scoppiata intorno a quella che a molti è parsa una tragica riproposizione della prima: la foto del piccolo Mohammed Shohayet, il bambino Rohingya in fuga dal Myanmar, morto qualche mese fa, durante la traversata del fiume che divide il suo paese dal Bangladesh. Tanta polemica suscitata da chi riteneva irrispettose quelle foto. Certo, il rischio della strumentalizzazione resta e bisogna vigilare. Ma quelle foto erano schioccanti perché imponevano di vedere. I numeri non commuovono, i nomi neppure, i volti sì!
Dunque la responsabilità di vedere, ma anche di aiutare a vedere è compito della carità. Carità è aiutare a vedere, a distinguere, a discernere, a dare un nome alle cose e agli eventi; e credo che compito dell’azione caritativa della Chiesa sia anche quello di indurre a vedere, prima e accanto al soddisfare bisogni quanto mai concreti e urgenti.
Aiutare a vedere innanzitutto tramite un’informazione che sia il più possibile obiettiva e non strumentale; e poi, soprattutto, aiutare a posizionare lo sguardo nella giusta prospettiva.
Quest’ultima esigenza mi sembra al cuore del brano scelto per la meditazione di oggi, come ho voluto esprimere nel titolo: “Una questione di prospettiva”.
La scena descritta in Gv 8,1-11 è infatti una scena piena di sguardi: tutti vedono, ma in modo diverso. Cogliamo qui un’altra particolarità di Gesù rispetto ai suoi vari interlocutori. Non solo Gesù “vede”, mentre spesso i personaggi con cui si confronta nei Vangeli, non riescono a vedere. Ma il più delle volte Gesù “vede altro”. Vede le cose da un’angolatura diversa, proprio come mostrerà (anche fisicamente!) nel nostro brano, che ora riascoltiamo ancora una volta.
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Un testo problematico
Siamo dinanzi ad una delle pagine più note ma anche travagliate del NT, che ha faticato ad essere accolta, come attestano i papiri e i codici più antichi che non la riportano. Inoltre, quando comincia ad essere attestata, vi è incertezza sulla collocazione: la si trova nel Vangelo secondo Luca, con cui sia il tema trattato sia il linguaggio mostrano maggiore consonanza; oppure in Gv, ma altrove rispetto all’attuale collocazione. Eppure si tratta di un testo antico, come testimonia Papia di Gerapoli, uno scrittore ecclesiastico del II secolo, che parla della storia di “una donna accusata davanti al Signore di molti peccati”; e poi nella tradizione latina, Girolamo, che ne difende l’autorevolezza, e Agostino che, nel suo Commento a Giovanni, ce ne ha lasciato una delle letture più suggestive.
Tra le tante domande che sorgono in proposito, e non solo allo storico dei testi, ne rilevo una in particolare: come mai tale incertezza? Se, infatti, è così antica, perché questa storia ha faticato a trovare una sua collocazione? La risposta non è facile. Certo, si tratta di un testo che, anche in seguito, ha sollevato qualche problema interpretativo. Tanto suggestivo, quanto problematico per l’etica cristiana. Si è pensato che nei primi secoli la sua problematicità fosse legata a quella misericordia senza condizioni di cui Gesù fa dono alla donna sorpresa in adulterio. Oppure all’imbarazzo dinanzi a quella frase, cui ci siamo un po’ abituati non cogliendone più la portata: “Chi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (v. 7), che sembra dare facoltà di giudizio solo a chi fosse senza peccato. Ma allora chi potrà giudicare, anche nella Chiesa? Pensiamo allo scalpore suscitato dall’affermazione di Papa Francesco: “Chi sono io per giudicare?”.
Un testo problematico, dunque, ma che, nonostante tutto, è riuscito ad arrivare sino a noi, e che ancora oggi sta dinanzi a noi in tutta la sua forza dirompente. Una delle più belle pagine sulla misericordia, si ripete, ma anche – e io direi soprattutto – una delle pagine più eloquenti sul particolarissimo modo con cui Gesù ha saputo “guardare” la donna e la Legge; e dunque sulla prospettiva secondo cui egli si è posto dinanzi alle due realtà fondamentali per il credente di tutti i tempi: l’essere umano e la Parola di Dio.
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Inquadramento e accusa (1-6a)
Gesù si trova nel tempio ad insegnare, descritto nella posizione tipica del rabbi che insegna: è seduto, dice l’autore. Una posizione, però, che può essere facilmente fraintesa con quella di chi giudica: altro seggio anch’esso ben noto.
Difatti, ecco arrivare “scribi e farisei” che gli conducono un caso da giudicare, con un fare che denota fin dall’inizio violenza e sopruso: gli conducono una donna, la mettono in mezzo e gli dicono cosa la Legge prevede per casi come questo. É chiaro che in quella domanda non vi è alcuna attesa di risposta. Costoro sanno che c’è una disposizione chiara in proposito, che va semplicemente ed automaticamente applicata: la donna va lapidata. Ma vogliono sentire quel rabbi che si era fatto conoscere per le sue interpretazioni originali della Torah; e allo stesso tempo vogliono “metterlo alla prova (peira,zontej auvto,n)” per “avere di che accusarlo (i[na e;cwsin kathgorei/n auvtou/)” (v. 6).
Il contesto non poteva essere più distorto e inquinato. L’agire di costoro, che pure si appellano alla Legge, è un coacervo di violenze: contro la donna, trattata come un caso e come un oggetto (messa in mezzo); contro la Legge, strumentalizzata per fini di male (accusare Gesù); e infine contro Gesù stesso, da cui non vogliono imparare, ma che intendono solo eliminare dalla scena.
Abbiamo qui un primo modo di guardare e di affrontare i casi umani. Un primo modo di posizionarsi, che peraltro è confortato da salde conoscenze della Scrittura.
Sull’argomento in questione c’è una normativa che pare chiarissima, nella legge di Mosè. Scribi e farisei non “dicono il falso”: Lv 20,10 prevede che l’adulterio fosse punito con la morte (cf. anche Dt 22,21). Stanno “difendendo” la Torah, la lettera della Torah, benché con modi e intenzioni che in realtà la offendono. E potremmo chiederci, per cominciare, se quando si pretende di difendere l’insegnamento di Dio, modi e intenzioni siano o no indifferenti. Basta dire ciò che è scritto nella Torah, o anche nel Vangelo, e applicarne la lettera, per essere certi di cogliere e proporre il messaggio divino?
Tante volte diciamo la “verità”, ma con toni sbagliati e con intenzioni non rette.
Mi chiedo se quella sia ancora “verità”. La disposizione del cuore è davvero indifferente rispetto al valore delle parole e alla loro autenticità e legittimità?
Ma torniamo per un attimo al problema del guardare. Anche questi accusatori hanno visto: la donna, la Legge e Gesù. Ma in che modo, con quale occhio e da quale prospettiva? La donna, che pure hanno visto bene tanto da “sorprenderla” in flagrante adulterio (vv. 3-4), non è percepita come un essere umano nella sua fragilità, con il suo volto, bensì come un caso cui applicare una norma già scritta, che la precede e cui la storia vera di quella donna non apporta nulla. La Legge, che pure conoscono a memoria, visto che trovano agilmente il passo adatto al caso, non è la testimonianza del cuore pulsante di Dio, ma una raccolta di direttive da cui estrarre sentenze da applicare. E infine Gesù, che vedono seduto a insegnare, per loro non è il rabbi venuto a rivelare il volto di Dio, ma un antagonista da mettere in difficoltà e da eliminare.
Tutto vero, dunque, quello che dicono, ma è ancora legittimo?
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La reazione di Gesù (6b-9a)
Di fronte a scribi e farisei c’è Gesù, che avrebbe potuto reagire in tanti modi.
Avrebbe potuto liberarsi di quella stretta in maniera brillante, percorrendo almeno due strade “giuridicamente” inoppugnabili. Avrebbe potuto invocare il fatto che in quel preciso momento storico né lui né il sinedrio avevano alcun potere di mettere a morte chicchessia. Lo ricorda proprio Giovanni durante il processo a Gesù quando Pilato, che vuole evitare di quella sentenza di morte, dice ai capi: “Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge”; ma si sente rispondere: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno” (Gv 18,31).
Ma c’è anche un altro difetto di forma, ancora più eclatante: la Legge di Mosè, esplicitamente menzionata da scribi e farisei, comandava di lapidare non “la donna”, come vogliono costoro, ma, dice il testo: “L’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Dunque l’uomo prima della donna. Gesù avrebbe potuto reclamare l’uomo, che doveva esserci, visto che quella donna era stata colta in “flagrante” adulterio (v. 4), specificazione di cui allora cogliamo tutta l’importanza nell’economia del brano.
Gesù però non scende al livello dei suoi oppositori perché qui la distanza è radicale. Non si stratta di trovare aggiustamenti o interpretazioni, più o meno legittime. Qui il problema è, come si diceva, di prospettiva: Gesù vede quella donna altrimenti da come la vedono i suoi oppositori. E per suggerire tale distanza, ecco due gesti, molto precisi ed eloquenti, con cui egli articola la sua risposta: si piega e scrive. Due gesti ripetuti per due volte, e al centro una parola: “Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei” (v. 7).
Estremamente importanti sono i gesti del piegarsi e dello scrivere. Con essi Gesù tenta di suggerire, con i movimenti del suo stesso corpo, un altro modo di guardare, appunto, all’essere umano e alla Legge.
Innanzitutto, dice il testo: “Si piegò a terra (ka,tw ku,yaj)” (v. 6); e poco oltre: “Ancora si piegò a terra (pa,lin kataku,yaj)” (v. 8). Prima di parlare Gesù cambia di posizione: era seduto secondo l’atteggiamento del maestro, ma nell’immaginario dei suoi interlocutori, quello stava diventando il ruolo del giudice. Abbandona dunque il seggio, per dissolvere ogni ambiguità, e si mette significativamente al livello più basso di tutti. Immaginiamo la scena: tutti in piedi e Gesù nel punto più basso.
Vari Padri della Chiesa hanno dato a questo gesto un valore teologico: vi hanno visto l’umiliazione del Figlio, nell’incarnazione e nella morte. Ma al di là del significato simbolico, è importante cogliere l’immagine: per dire una parola, Gesù sente il bisogno di piegarsi, di scendere, di abbassarsi. Sente il bisogno di guardare quell’essere umano da un’altra prospettiva: dal basso verso l’altro, per coglierne tutta la dignità. Avverte la necessità di mettersi ai piedi di quella donna. Ripete poi quel gesto per due volte, quasi a voler invitare i suoi interlocutori a seguirlo in quel cambiamento di prospettiva, perché forse così avrebbero compreso. Per lui non si trattava solo di trovare l’interpretazione più intelligente, più originale, più geniale, per uscire vincitore da una disputa. Non è di quello che i suoi interlocutori avevano bisogno, ma di guardare l’essere umano dal basso verso l’altro, e non dall’altro di un seggio, magari di giudizio, verso il basso. Sono solo immagini, ma che dicono molto!
Viene poi il secondo gesto: Gesù scrive per terra.
Anche questo è un gesto ripetuto: “Si mise a scrivere con il dito per terra (tw/| daktu,lw| kate,grafen eivj th.n gh/n)” (v. 6); e poco oltre: “Scriveva per terra (e;grafen eivj th.n gh/n)” (v. 8). Se il primo gesto riguarda il posizionarsi di Gesù rispetto all’essere umano, questo secondo concerne la Legge: come Gesù si colloca rispetto alla Torah e in quale specifico luogo la pone dinanzi a colui al cui servizio essa è offerta. Il rabbi di Nazaret, infatti, non rinnega la Legge, lo “sta scritto”, e anche lui scrive, “con il dito”, specifica il nostro autore. Una precisazione che ricorda quanto Dio aveva fatto sul monte Sinai, dove aveva scritto la Legge sulle tavole con il proprio dito (cf. Es 31,18).
Peraltro, come quelle tavole, a causa della ribellione del popolo, erano state scritte per due volte (cf. Es 32,15 e 34,1), così anche Gesù scrive due volte. Questi, dunque, con il suo gesto, richiama la Legge. Ma anche questa volta invita i suoi interlocutori a guardarla da un’altra prospettiva. Quella Legge non è scritta sulla dura roccia, ma nella tenera terra. Quella terra di cui l’essere umano è plasmato. Geremia annuncia un tempo in cui la Legge sarebbe stata scritta addirittura sul cuore (cf. Ger 31,33). Non solo: quella Legge non è scritta al di sopra dell’uomo quasi a schiacciarlo, ma ai suoi piedi, quasi a servirlo. Altrove Gesù dirà: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27), che potremmo parafrasare: “La Legge è stata fatta per l’uomo, non l’uomo per la Legge”. E mi chiedo se siamo ancora capaci di far capire questo, quando annunciamo le “esigenze” di Dio? Anche qui è una questione di sguardo. Sì, la Legge!
Ma quale Legge e, soprattutto, da quale prospettiva?
Ecco i due elementi da mettere in dialogo: l’essere umano e la Legge; la donna e la parola detta a lei. Ma il “come” di questo incontro è tutto da ricomprendere. Da una parte c’è il modo di “scribi e farisei”, scribi e farisei di tutti i tempi; e dall’altro c’è il modo, la prospettiva, di Gesù, che si piega e scrive per terra. Guardando la donna dal basso e scrivendo quella parola, per lei, ai suoi piedi.
Gesù non è venuto ad aggiungere leggi, a scrivere nuove pagine di comandamenti, ma ad indicare una nuova prospettiva, un nuovo modo di mettere in relazione l’essere umano e la Legge. Due elementi da guardare e da mettere in dialogo, tramite il discernimento, altro grande tema di questa stagione ecclesiale: una fatica alla quale non è possibile sottrarsi, a costo di perdere la qualità ecclesiale di una comunità. Un discernimento fatto in ginocchio, come Gesù mostra. Chi può dire una parola di discernimento? Chi può interpretare rettamente la Legge di Dio? Il testo sembra dire: solo colui che è capace di piegarsi in basso e misurare l’abisso. Solo dal basso si può discernere!
Gesù si era piegato quasi invitando i suoi interlocutori a guardare da quella prospettiva, ma nessuno lo aveva seguito. La prima parte dell’esercizio non aveva dato alcun esito. Egli aspetta e tace, ma quelli insistono, dice l’autore del nostro brano. Allora Gesù passa ad una seconda via, che forse avrebbe voluto risparmiare a quegli scribi e farisei, anch’essi esseri umani da lui amati. La nuova via è quella con cui Gesù chiama in causa la loro personale esperienza del peccato. Non sono riusciti ad entrare nel dramma di quella donna, loro simile, ora prova a vedere se riescono ad entrare nel proprio dramma, nel dramma del proprio peccato: “Chi di voi è senza peccato” (v. 7). A volte solo quando vediamo all’opera in noi il male, siamo capaci di misurarne tutta la forza travolgente.
Mi pare poi significativo osservare che Gesù, nella sua tenerezza, tiene questa possibilità come estrema ratio, perché è cosciente di quanto sarà per loro dolorosa e umiliante, soprattutto per i più anziani, che per primi, a capo chino, dovranno abbandonare il campo. Una forma di delicatezza da parte di Gesù che non può non commuoverci ancora. Vi ricorre solo perché insistono.
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Epilogo: Gesù e la donna (9b-11)
L’ultima scena si apre con gli accusatori che abbandonano anche loro quel tribunale improvvisato. La seconda scena si era aperta con Gesù che era sceso dal seggio, piegandosi fino a terra. Alla fine, è riuscito a far scendere anche gli accusatori: il tribunale si è dissolto!
Sono rimasti solo Gesù con la donna, che è ancora “in mezzo (evn me,sw|ou=sa)” (v. 9), dove l’avevano messa scribi e farisei. Non si è spostata di un passo: puro oggetto fin qui. È qui che Agostino ha quel commento splendido: Relicti sunt duo: misera et misericordia[2].
Finalmente c’è l’incontro. Dopo l’affanno di uomini che si accusano e si affaticano per distruggersi gli uni gli altri, con trabocchetti e ipocrisie varie, ecco che ci sono due esseri umani che si incontrano, in una scena di grande pace. La donna è rimasta nel mezzo, ma non più per esservi accusata, bensì per vedersi riconosciuta tutta la sua dignità: al centro come spetta ad ogni creatura umana.
In quella solitudine silenziosa, risuona la domanda di Gesù, che ha dello straordinario: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?” (v. 10). Curiosa domanda come di chi non sa, eppure è lì e vede. Ma Gesù chiede, perché sia la donna stessa a prendere la parola e a pronunciare la propria sentenza, finalmente non più oggetto neppure della misericordia!
Gesù le ridà la dignità di soggetto. Ha peccato di adulterio, ma resta un essere umano per Gesù e deve dire lei stessa di sé. Dunque è da se stessa che pronuncerà quella parola di liberazione, che è uno straordinario grido di vittoria e allo stesso tempo segno della percezione di una salvezza in atto: “Nessuno, Signore!” (v. 11).
In verità lì c’è ancora qualcuno che – il lettore lo sa bene! – è senza peccato e potrebbe scagliare quella pietra: Gesù. L’autore del brano sembra voler creare ancora un momento di attesa. Quasi a dire: e Gesù che farà? L’interrogativo, però, presto si scioglie: “Neanch’io ti condanno!”. Chi vorrebbe giudicare e condannare – dice il testo – non può farlo; chi invece potrebbe farlo, non vuole. In Gv 8,15 Gesù dirà: “Voi giudicate secondo la carne: io non giudico nessuno”. L’uomo religioso – i Vangeli ce lo ricordano a più riprese – è costantemente tentato di prendere il posto del giudice; di sedersi lui su quel trono che Gesù rifiuta. È forse anche per questo che il nostro testo ha faticato ad essere accolto nella Chiesa. Anche perché la conclusione può apparire deludente. Gesù dice solo: “Neanch’io ti condanno! Va’ e non peccare più” (v. 11).
Alla fine il testo resta aperto e Gesù non impone nulla. A quella donna affida solo quei due gesti, che lei forse ricorderà: uno sguardo dal basso e una parola scritta ai suoi piedi. La conversione, che forse quella donna avrà tentato di vivere, non ha avuto altro fondamento che la memoria di quei due segni.
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Conclusione
La carità, dunque, come sguardo responsabile sulla realtà e come prospettiva altra da cui scorgere l’essere umano e la Parola del Signore, la Legge, prima ancora del fare e dell’agire, pure necessari: ecco un impegno cruciale nel mondo di oggi, soggetto a così tanti cambiamenti e tradimenti.
Credo vi sia qui una delle più grandi sfide per la Chiesa del nostro tempo: servire l’umanità di ogni essere, inchinandosi davanti ad essa, davanti a quella pura umanità, quali che siano le sue ferite e i suoi bisogni (poveri, carcerati, migranti, rifugiati) e quali che siano le sue coloriture esteriori (cultura, religione, convinzioni). E, in questo piegarsi, portare con sé quanto di più caro la Chiesa ha: la memoria del suo Dio e la sua Parola contenuta nelle Scritture, còlta come una Parola che si pone al servizio di quell’umanità. Una Parola che non si sente umiliata quando è trascinata in basso, ai piedi dell’essere umano. Perché solo lì potrà autenticamente dialogare con colui al cui servizio è stata posta dal Creatore.
Per i cristiani non c’è davvero altare separatamente dall’uomo, non c’è Legge separatamente dalla vita dell’essere umano. Questo non vuol dire sminuire l’onore dovuto a Dio, relativizzare le esigenze del Vangelo, perché, come ricorda Ireneo di Lione: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”[3]. Dio non conosce altra gloria e altro onore che questo. Ogni volta che, guardando un essere umano, sappiamo discernerne il valore.
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[1] A. Casati, Diario di un curato di città, in Il sorriso di Dio. Alla ricerca della bellezza e della libertà dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 87.
[2] Agostino di Ippona, Commento al Vangelo di Giovanni 33,5.
[3] Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,20,7