Vi proponiamo una riflessione di don Walter Magnoni (responsabile del Servizio per la pastorale sociale e il lavoro nella Diocesi di Milano) che, come dice il titolo di questo post, offre alcuni spunti per una spiritualità del lavoro. L’oggetto delle considerazioni si riferisce, a quel momento della vita nel quale definitivamente si entra nel mondo del lavoro.
«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo» (Qo 3,1)
II primo giorno di lavoro appartiene a quei momenti significativi nella storia di un uomo e di una donna. Qui non s’intende l’attività, magari anche retribuita, che si svolge negli anni in cui ancora si sta principalmente studiando, fatta talora di lavoretti occasionali, utili per affrontare le spese ordinarie. L’oggetto delle considerazioni che mi accingo a fare si riferisce, invece, a quel momento della vita nel quale definitivamente si entra nel mondo del lavoro.
Esistono diversi modi di approcciarsi al mondo del lavoro e tra questi vorrei porre l’accento su due visioni opposte tra loro ed entrambe problematiche. Anzitutto quella che si potrebbe declinare col seguente slogan: fare tutto quanto è in nostro potere per faticare il meno possibile. Si parte dall’idea che purtroppo si deve lavorare, anche se la vita, quella vera, è altrove. Dietro a questo modo di pensare troviamo persone che entrano nel mondo del lavoro senza passione e grandi interessi, ma con la rassegnazione che per vivere si deve lavorare. Chi ragiona così ha spesso un sogno: vincere qualche grande lotteria per non lavorare più. Insomma, il vizio di fondo è la scissione tra lavoro e vita.
La seconda visione del lavoro, altrettanto problematica, la declino col motto: vivo per lavorare. Esistono persone che, quando sono in ferie, vivono questo tempo con difficoltà. La cosa, che di primo acchito potrebbe apparire paradossale, si verifica laddove si fa diventare il lavoro un idolo. Per qualcuno l’attività lavorativa è luogo dove si proiettano tutte le proprie energie migliori perché rapiti dal sogno del successo attraverso l’affermazione professionale e della conseguente ricchezza. Questo porta giovani (rampanti) a sacrificare tutto (famiglia, amici, affetti, Dio) per il mito del lavoro. Insomma, se nel primo caso abbiamo parlato di scissione tra lavoro e vita, qui si realizza una totale sovrapposizione: la vita diventa il lavoro.
Aristotele insegnava che la virtù sta nel mezzo e anche in questo caso si tratta d’individuare una via mediana che sia, appunto, virtuosa. Indico questa direzione con lo slogan: partire dall’uomo! Infatti, come dice bene Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens, un’enciclica scritta nel 1981: «Il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso […] per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (n. 6).
Concretamente quale significato assume questa via? Significa attuare un adagio dei monaci che suona così: age quod agis. Ovvero «fai quello che stai facendo».
II punto di partenza, che vale per il lavoro (ma anche per lo studio) ed in generale per ogni attività che si compie, è quella di esserci con tutto se stessi. Nel senso che non basta la presenza fisica. Infatti, così come non è sufficiente allo studente recarsi a scuola per espletare pienamente il suo compito, ma gli è richiesto di ascoltare quanto viene detto, al contrario sarebbe lì solo a “scaldare il banco”, allo stesso modo, chi lavora deve esser presente con tutto se stesso, anche perché in alcuni lavori le distrazioni possono provocare gravi danni fisici a sé e agli altri.
La nostra società, attraverso le nuove tecnologie, non sempre aiuta questo stile di concentrazione che porta ad essere pienamente presenti laddove si è. Penso a chi studia col cellulare sul banco, il computer acceso e connesso a internet. Quante volte s’interrompe lo studio per “chattare” su Facebook o rispondere agli amici che scrivono compulsivamente su WhatsApp? Tutto questo produce dispersione e non aiuta l’attività principale che si sta svolgendo in quel momento.
In realtà, tutto quello che si è detto finora chiede di essere giustificato alla sua radice e per tale ragione vanno affrontate due domande che divengono cruciali. La prima: «Cosa c’entra il lavoro (e lo studio) con la spiritualità?». Per rispondere dobbiamo scrutare i primi capitoli della Bibbia, precisamente i primi undici capitoli di Genesi, dove gli esegeti ci dicono che la storia dell’uomo di sempre è riportata alle origini.
Qui troviamo un passaggio illuminante: «II Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). All’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è dato il compito di prendersi cura di quel giardino che è il mondo intero. Da tali parole si comprende come il lavoro sia vocazione per chi crede nel Dio che crea il mondo e lo mette al centro del cosmo per migliorarlo attraverso l’attività di ogni giorno. Gesù stesso nelle sue parabole benedice l’operosità delle persone, richiamandole alla responsabilità. Si pensi alla parabola dei talenti: a ciascuno è dato qualcosa perché lo faccia fruttificare e il servo “pigro” viene gettato fuori e non prende parte alla gioia del suo padrone come gli altri (cfr. Mt 25,14-30).
Uno dei compiti fondamentali dell’educazione cristiana è quello di aiutare le persone a comprendere lo stretto nesso tra fede e vita. L’incontro col Signore e il suo Vangelo permea tutta la vita dell’uomo in ogni sua dimensione e quindi anche quella del lavoro. Si deve evitare la separazione tra la propria vita cultuale, fatta di preghiera e pratica dei sacramenti e il resto delle attività. La spiritualità del lavoro è precisamente il credere che lo Spirito santo guida l’azione delle persone dando loro un’impronta cristiana in ogni attività svolta e quindi anche all’interno di quella lavorativa o di studio per chi ancora non lavora. Da questa affermazione scaturisce la seconda domanda: «Quale stile dovrebbe avere un cristiano sul posto di lavoro?». Anche in questo caso esistono due estremi da evitare. II primo lo declino con uno slogan: la fede è mia e me la gestisco io. È l’atteggiamento di chi sul lavoro evita assolutamente di far trasparire la propria fede, sia per timore che questa possa danneggiarlo, sia per timidezza, sia per l’errata convinzione che non sia argomento che deve trapelare in ambito lavorativo.
AI contrario, ci sono quelli che ostentano la fede e si credono i salvatori del mondo, dimenticando che vi è un solo Salvatore e che quando è venuto ha avuto un profondo rispetto della libertà degli uomini e delle donne che ha incontrato sul suo cammino. Ancora una volta, lo stile passa da una presenza discreta che, senza ostentare, non si sottrae al confronto su tutto e quindi anche sul proprio credo. Ma, soprattutto, il cristiano è chiamato attraverso il suo vivere a testimoniare nei fatti ciò in cui crede. Saper ascoltare le persone, esercitare la discrezione, fare bene le proprie mansioni (semplici o complicate che siano), vivere la solidarietà e porre segni di gratuità: sono tutti gesti non scontati che dicono di uno stile simile a quello che troviamo in Gesù nel suo Vangelo. Anzitutto, si tratta di accorgersi degli altri, che siano colleghi o persone con le quali si entra in contatto a causa del tipo di lavoro che si svolge. In secondo luogo, ci è chiesto di non cadere nei pettegolezzi o in quella che nella Bibbia prende il nome di “mormorazione”. Aspetto centrale è l’essere responsabili e far bene le mansioni richieste. Mi ha colpito quanto ha detto Giovanni Bachelet in occasione del trentesimo convegno Bachelet all’Università La Sapienza di Roma (12 febbraio 2010): «Se un uomo è chiamato ad essere uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia. Dovrebbe pulire le strade così bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è vissuto un grande spazzino, che faceva bene il suo lavoro».
Un ultimo aspetto, oggi troppe volte disatteso, è il recupero dei legami di solidarietà e gratuità coi colleghi di lavoro. Un tempo se un lavoratore veniva licenziato, quelli che condividevano con lui quell’attività si coalizzavano e verificavano – nei limiti del possibile – che non vi fossero ingiustizie. Vi è stata una stagione in cui i lavoratori sentivano con forza il loro legame. Oggi, in un’epoca sempre più segnata dall’individualismo, questi tipi di legami si sono indeboliti e il segno più eloquente è lo scarso ricorso ai “contratti di solidarietà” che consentono ai lavoratori delle ditte in crisi di lavorare un po’ tutti, anche se meno. Non può un cristiano, di fronte al collega licenziato, uscire con affermazioni del tipo: «per fortuna non è toccato a me».
Vorrei aggiungere a queste osservazioni le indicazioni significative che sono offerte dal Magistero di Papa Francesco. Cosa suggerisce il Papa argentino al nostro approccio al lavoro?
Nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium troviamo «quattro principi che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale» (221) e che vorrei poter applicare in relazione alla vita di un giovane che inizia a lavorare.
- Il tempo è superiore allo spazio. Sostiene Papa Francesco che: «Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone» (EG 223). Il Pontefice ha in mente soprattutto quel modo di fare politica tentato di privilegiare gli spazi di potere piuttosto che i tempi dei processi. Ma pensando a un giovane che entra nel mondo del lavoro, sento la necessità di segnalare la pertinenza di questo principio in relazione alla possibile creazione di nuove start-up. La narrazione di giovani “vincenti” che dal nulla hanno costruito un impero economico cavalcando semplicemente un’idea vincente, va messa in relazione alla storia di tante start-up fallite con dispendi economici e scoraggiamenti. Immaginarsi imprenditori di se stessi è in sé qualcosa di positivo, ma non basta lo spazio di un’idea per buttarsi in un’impresa nuova. Decisivo appare il confronto con persone che conoscono i processi economici e sono in grado di vedere se l’intuizione potrà resistere alla prova del tempo.
- L’unità prevale sul conflitto. Anche il mondo del lavoro è abitato da conflitti, anzi è uno dei luoghi dove il conflitto è la regola. Vivere in modo positivo il conflitto è arte tutta d’apprendere e dove lo stile del cristiano può dire qualcosa a tutti. Significa non cedere alla logica dell’arrivismo che schiaccia i colleghi, non cadere nella pratica sterile del pettegolezzo sugli assenti, lavorare bene con i compagni di lavoro, praticare la solidarietà e capire che la qualità relazionale è la vera chiave con cui affrontare oggi il nostro impegno quotidiano. Nelle situazioni di crisi talvolta i lavoratori si spaccano perché non prevale la logica del bene comune ma quella dell’interesse individuale. Essere uomini e donne di unità nei luoghi di lavoro ha un valore inestimabile ed è per questo che quanto detto in precedenza sul tema della solidarietà e della gratuità si applica pienamente a questo principio.
- La realtà è più importante dell’idea. Per spiegare meglio questo principio Francesco afferma: «Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si sostituisce la ginnastica con la cosmesi» (EG 232). Serve un grande realismo per cogliere i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. La cosiddetta “Industria 4.0” è già realtà. Dopo la rivoluzione del carbone e della macchina a vapore; dopo quella del petrolio, dell’energia elettrica e della produzione di massa; e dopo quella più recente di internet e delle tecnologie dell’informazione e dell’automazione, oggi siamo nel campo dell’intelligenza artificiale (ovvero macchine capaci d’apprendere), della stampa 3D, delle nanotecnologie e delle biotecnologie. È con questa realtà che ci dobbiamo misurare senza paura, ma col realismo di chi sa che solo un’intelligenza non rigida sarà in grado di scorgere le nuove opportunità lavorative che si aprono a fronte di quelle che vanno ad esaurirsi.
- Il tutto è superiore alla parte. È la grande sfida, che copre anche il mondo della produzione, tra locale e globale. Con la globalizzazione (di cui Papa Benedetto XVI ci ha offerto un’analisi lungimirante nella Caritas in veritate) il mondo si è fatto più piccolo e le interazioni sono aumentate esponenzialmente. Chi entra oggi nel mondo del lavoro deve avere uno sguardo ampio e capace di cogliere non solo i limiti della globalizzazione, ma soprattutto le opportunità. La conoscenza di altre lingue, oltre all’italiano, è sempre più uno strumento essenziale per non rimanere isolati dal resto del Pianeta. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia: mi pare questo lo stile suggerito dal Pontefice in questo punto.
Infine, mi piace ricordare l’esempio dei benedettini presente nella Laudato si’ quando si affronta la questione lavorativa: «Raccogliamo anche qualcosa dalla lunga tradizione monastica. All’inizio essa favorì in un certo modo la fuga dal mondo, tentando di allontanarsi dalla decadenza urbana. Per questo i monaci cercavano il deserto, convinti che fosse il luogo adatto per riconoscere la presenza di Dio. Successivamente, san Benedetto da Norcia volle che i suoi monaci vivessero in comunità, unendo la preghiera e lo studio con il lavoro manuale (Ora et labora). Questa introduzione del lavoro manuale intriso di senso spirituale si rivelò rivoluzionaria. Si imparò a cercare la maturazione e la santificazione nell’intreccio tra il raccoglimento e il lavoro. Tale maniera di vivere il lavoro ci rende più capaci di cura e di rispetto verso l’ambiente, impregna di sana sobrietà la nostra relazione con il mondo» (126).
Queste ultime parole sono l’augurio per una spiritualità del lavoro dove il lavoro, la preghiera e lo studio si armonizzano in una vita ordinata e santa.