Proponiamo un interessante articolo di Don Armando Matteo, Sottosegretario aggiunto della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicato su L’Osservatore Romano dello scorso 29 Maggio.
La situazione descritta da Pier Giorgio Gawronski, nel suo articolo «Le chiese vuote e l’Umanesimo integrale», del 22 febbraio scorso, non può non dare a pensare. Egli ha perfettamente ragione: da una parte, i credenti si trovano oggi in una condizione epocale davvero inedita, che trova nel segno delle “chiese sempre più vuote” una cifra particolarmente inquietante; dall’altra, una reale presa in carico di tale situazione imporrà loro un grande sforzo di pensiero, di cuore e di azione.
Proprio per questo, non appare per nulla inverosimile ipotizzare che non pochi di loro possano essere tentati di mettere in atto diversificate strategie di difesa e di rimozione dinanzi a quanto evidenziato in quell’articolo. Ne vorremmo qui di seguito indicare tre.
Una prima strategia di difesa a cui alcuni credenti potrebbero far ricorso, nel confronto certamente non semplice con il contesto secolarizzato attuale, è quella di una opzione identitaria. Si tratterebbe di spingere l’acceleratore sulle parole d’ordine di sempre, sulla formulazione meccanica di idee chiare e distinte, sulla ripetizione stantia di affermazioni la cui accettazione non richiederebbe alcuno sforzo di assimilazione e meno che mai di interpretazione da parte di colui che è chiamato ad assumerle e a trasformarle in principio di vita.
D’altro canto, non c’è chi non veda il fascino di una tale impostazione, la quale, in un tempo di grandi evoluzioni, rivoluzioni e controrivoluzioni, offrirebbe un sicuro centro di gravità permanente a cui fare costante riferimento. Non solo, tale impostazione solleverebbe dalla fatica — e che fatica, a soppesare bene le cose segnalate da Gawronski! — di mettere mente e mano ad una qualche nuova forma di mentalità pastorale, dalla necessità di prendere sul serio e almeno con qualche spunto di empatia le nuove istanze, le nuove tendenze e la nuova strumentazione tecnologica che dominano la vita quotidiana. La strategia dell’opzione identitaria renderebbe, in una parola, immuni dallo sforzo di un gesto di creatività e di immaginazione che riuscirebbe finalmente a presentare la scelta di vita cristiana non come totalmente alternativa alla cittadinanza contemporanea del mondo, ma come un qualcosa che la integri, che ne corregga gli sbandamenti, che le offra strumenti per discernere le ambivalenze, mettendo a sua disposizione un orizzonte sempre più grande, che concorra alla piena fecondità dell’esperienza umana delle persone.
Quando, tuttavia, si cede totalmente alla strategia identitaria, il pericolo più grave è quello denunciato da tempo da Papa Francesco: il pericolo dell’autoreferenzialità, il pericolo di parlarsi addosso, il pericolo di interrompere il fondamentale dinamismo missionario. Di fronte a credenti che insistono su tale opzione identitaria, è più che naturale immaginare la reazione del cittadino medio. La reazione cioè di chi pensa che ciò che i credenti dicono per lui non vale. Non lo tocca. È, appunto, qualcosa dei cattolici e per i cattolici. È oggetto di condivisione di coloro che appunto già da sempre condividono ciò che sentono il dovere di ripetete. Insomma, l’espressione pubblica della parola cristiana perderebbe semplicemente la sua forza di provocazione per tutti. E questa non è cosa da poco.
La seconda possibile strategia difensiva di altri credenti, di fronte all’imporsi della mentalità secolarizzante, potrebbe essere quella del risentimento permanente. La nuova, per tantissimi versi inedita, collocazione marginale della comunità cristiana non è facile da mandare giù come se fosse un semplice boccone amaro.
Cosa del resto più che comprensibile. Non è infatti assolutamente vero che l’attuale diffusa e generale estraneità, in particolare presso le nuove generazioni, di tutto un mondo di riti, di miti, di comportamenti cattolici lascia quasi senza parole? Come è stato, infatti, possibile che così rapidamente si disperdesse dalla memoria collettiva il grande fascino delle celebrazioni solenni, grazie alle quali il mistero inquieto dell’esistenza umana veniva riletto e trasfigurato alla luce del mistero divino d’amore incarnato nella vita, morte, passione e risurrezione di Cristo? Come è stato possibile che così facilmente e così velocemente si sia potuto obliare il significato di quelle antiche parole che per secoli hanno indicato all’anima umana le coordinate per contenere le altezze e le bassezze di ogni piccola e grande esistenza: parole come sacrificio, dono, riparazione, peccato, espiazione, redenzione attraverso la croce, remissione della colpa, attesa escatologica, parusia, giudizio finale, paradiso, inferno, purgatorio, e infine salvezza?
Si pensi ancora più semplicemente a cosa oggi possa pensare un giovane dei voti specifici della vita religiosa; a che cosa cioè possano provocare in lui parole come “castità”, “povertà” e infine “obbedienza”. Sono ormai alle spalle i tempi in cui era un onore avere un figlio prete o una figlia suora. Né andrebbe sottaciuto il peso che le tristissime vicende della pedofilia del clero continua ad avere.
Più di frequente, infine, le stesse persone che partecipano alla Messa non sanno quasi più neppure quando sedersi o quando stare in piedi, per non parlare affatto delle risposte previste dai riti. Non c’è quasi più parroco che al momento della ricezione della comunione, al posto del previsto “amen”, non si senta rispondere un convinto e partecipato “grazie”!
Ai cristiani, insomma, non spetta più dirigere la storia della salvezza dell’intero mondo, stabilire chi siano i buoni e chi i cattivi e, soprattutto, a quali condizioni questi ultimi avrebbero ancora una qualche possibilità di redimersi dalle loro colpe. La regia è in mano ad altri, i quali, di ciò che la Chiesa pensa, afferma e vive, non si preoccupano più di tanto. Che un certo risentimento prenda perciò piede tra i credenti è quasi del tutto comprensibile.
Quando, tuttavia, diventa predominante, la strategia del risentimento produce effetti devastanti. Si parte da un discorso sempre negativo, sprezzante sulle cose oggi in moda (pur non evitate dagli stessi credenti nella concretezza della pratica) e si persiste nel voler ad ogni costo appesantire la vita di tutti con una precettistica morale rigida, nel voler fare ancora assegnamento ai sensi di colpa, nel voler mettere infine tutti in una costante posizione di debito nei confronti dell’amore di Dio, della sollecitudine della Chiesa, delle scelte di vita dei consacrati, della disponibilità dello stesso povero parroco!
Il veleno del risentimento è difficile da tenere a bada, perché ha effetti nocivi innanzitutto su chi lo sparge. È lui la prima vittima. È la sua stessa esistenza a perdere calore, colore, charme. Non emana più quella forza di attrazione che da sempre è la vera porta d’ingresso nel campo del religioso. E non c’è bisogno di scomodare un Nietzsche per ricordarci che una religione senza gioia induce a pensare che la vera gioia sia proprio senza la religione!
La terza ed ultima strategia difensiva possibile ad altri credenti oggi, di fronte all’avanzare della secolarizzazione, è quella che potremmo definire del “tradizionalismo”. Essa si concentrerebbe nella denuncia di ogni tentativo di cambiamento in termini di tradimento. Si penserebbe, infatti, che solo chi non cambia non tradisce e dunque salva sé stesso e può essere garante di una qualche salvezza. Qui la ricerca di punti fermi, dentro il mare democratico e pienamente orizzontale dell’epoca contemporanea, rischia di confondere la certezza con la salvezza e dunque la salvezza con la certezza.
Anche in questo caso va pure riconosciuto che, con la tentazione/strategia del tradizionalismo, non si tratta di qualcosa che non abbia una qualche ragione d’essere. Il cristianesimo ha perso oggi infatti tante certezze ed immense sicurezze, in molti casi anche di pura natura materiale. Si pensi solo alla scarsità di vocazioni, alla poca gente a messa, alla fatica generale nella catechesi d’iniziazione dei ragazzi. Ma forse la perdita più grande è il venire meno, da parte degli stessi credenti, della sicurezza diciamo così “culturale” di aver fatto la scommessa giusta, di aver cioè fatto la scelta di vita migliore, in ordine al compimento della propria esistenza. Ciascuno oggi deve rispondere da sé alla scelta di restare cristiano e di continuare a frequentare la vita della comunità ecclesiale. E questo vale quasi in misura doppia per ogni consacrato.
Non esiste, dunque, più alcun supporto o appoggio “esterno” a questa prassi, così come non si sperimenterebbe più alcuna forma di emarginazione sociale o alcun senso di colpa nei confronti della collettività qualora si optasse per la strada della non appartenenza. Nessuno viene più segnato a dito per il fatto di non frequentare i riti e le liturgie ovvero per non accompagnare le tappe della propria crescita o quella dei propri figli con i sacramenti della fede. “Non credere” non rappresenta più una sorta di peccato sociale. Lo stesso credente comune approva come del tutto legittimo il comportamento opposto al suo, ma tale implicita ammissione gli costa il dovere di trovare ragioni da offrire innanzitutto a sé stesso in merito alla propria scelta del Vangelo.
Ed è così che tutto l’immutabile mondo del sacro e dell’eterna salvezza è diventato, all’improvviso, come ci ha insegnato da tempo Charles Taylor, semplicemente opzionale, oggetto di libera scelta e sempre più spesso oggetto di scelte minoritarie e, secondo non poche persone, oggetto di scelta proprio di soggetti ritenuti intellettualmente minorati! Ingaggiare un confronto audace con tutto ciò, alla ricerca di ciò che è vivo e di ciò che oggi è morto nella tradizione vigente del cristianesimo, appare più che logicamente faticoso, complicato e certamente pericoloso. Non appare perciò più semplice il restare fermi, nell’attesa che le cose ritornino come prima? Non è forse più promettente, almeno meno gravido di possibili azzardi, il fare come si è sempre fatto?
Ma qui, infine, ci raggiunge l’autorevole ed appassionata parola di Papa Francesco, che ci incoraggia da otto anni a non avere paura di confrontarci con le sfide dell’epoca attuale. Da tempo, ci ricorda che non possiamo restare in attesa che le cose tornino come prima. La cristianità è veramente finita! Da tempo, ci invita a quella creatività e immaginazione del possibile che tocca pure l’universo della prassi pastorale del cristianesimo. Dio si fida realmente dei credenti e della loro opera e ad essi non farà mancare la grazia per il discernimento necessario. Da tempo, ci rammenta insomma che ad un cambiamento d’epoca (che è il portato più vero della secolarizzazione in atto) l’unica risposta all’altezza è quella di un cambiamento della mentalità pastorale, cioè di tutte quelle dinamiche e forme grazie alle quali la comunità dei credenti offre agli uomini e alle donne della generazione cui essi appartengono il “pasto” buono del Vangelo. È urgente perciò passare da un cristianesimo che risponde ad una domanda di consolazione che nessuno gli pone più ad un cristianesimo che permetta a chiunque di incrociarsi con Gesù, innamorarsi di lui ed essere così all’altezza della parte migliore di sé. È l’innamorarsi di Gesù la porta d’accesso e il punto di innesco di quell’umanesimo integrale, di cui oggi il mondo ha tanto bisogno. E di cui il cristianesimo è sempre in debito nei confronti del mondo, in obbedienza al mandato del suo Maestro. Oggi in un modo semplicemente differente da quello di ieri.
Questa è, in estrema sintesi, l’“opzione Francesco”. E noi, da che parte vogliamo stare?