Proponiamo un editoriale del professor Luigino Bruni, pubblicato su Avvenire del 2 novembre scorso.
E la preghiera ci rivelò la città
Tra le moltissime immagini che accompagnano le nostre tante tragedie, ce ne sono alcune che spiccano, che si impongono per forza propria. Qualche volta una emerge su tutte le altre, perché alimenta riflessioni, svelando l’anima profonda di quanto è accaduto e che le parole non riescono ancora a dire. Nel terremoto di domenica 30 ottobre – che mi ha colto mentre passavo in auto sotto Arquata – la foto di quel piccolo gruppo di cittadini di Norcia, inginocchiati con le suore e i monaci davanti alle macerie della basilica di San Benedetto, è diventata l’icona di questo nuovo, indicibile, dolore. Marina Corradi lo ha scritto ieri, qui, con grande intensità.
Mentre la terra ancora tremava e nessuno poteva sapere la gravità di quanto era appena accaduto, mentre si fuggiva, si gridava, si cercavano e si chiamavano famigliari e amici, qualcuno si è fermato, è caduto in ginocchio di fronte a una chiesa che non c’era più, ma che continuava ad esserci. In quel piccolo gruppo di cristiani oranti di fronte a un mucchio di macerie abbiamo rivisto molte cose, tutte molto importanti. Innanzitutto tra quelle persone c’erano anche alcune suore di clausura. Molte altre volte, durante e dopo le scosse, quelle suore avranno pregato nel loro convento, ma non le avevamo viste. Quella scossa più forte e il crollo delle mura le ha portate in mezzo alla città, e la piazza è diventata il luogo della preghiera. E tutti le abbiamo viste, insieme ai monaci, alla gente, in ginocchio. E abbiamo capito, abbiamo rivisto, alcuni dopo tanti anni, altri per la prima volta, che cosa significa saper pregare, che cosa significa aver appreso per anni, decenni, l’arte della preghiera.
Mentre tutto si muove, qualcuno, per vocazione, si ferma, si inginocchia, alza le mani, e prega. Come Mosè durante la battaglia, come Maria e le donne sotto la croce. Come se quell’evento drammatico avesse squarciato il velo, consentendoci di vedere un pezzo vivo della città, che nei tempi non tremendi non riusciamo più a vedere. Domenica mattina l’abbiamo vista, l’abbiamo vista tutti. E tutti l’abbiamo capita, credenti e no. Tutti abbiamo ringraziato quel manipolo di persone per non aver dimenticato di pregare. Quando la vita ci mette tutti in ginocchio, possiamo stare in ginocchio e basta o possiamo restare in ginocchio e pregare. Ma per pregare mentre la terra trema occorre averlo fatto tutti i giorni, tutta la vita.
Non si improvvisano mai le preghiere, tantomeno quando tutto crolla. E così abbiamo tutti capito che quando in città c’è qualcuno che ha imparato a pregare e lo fa ogni giorno, per anni, per tutta la vita, quella città è più ricca. Ha un bene pubblico in più, di valore inestimabile. Anche se non lo vediamo, anche se abbiamo dimenticato di vederlo, anche se chiamiamo le suore ‘suorine’, e non le stimiamo più come meritano, e persino le prendiamo in giro per la loro scelta di vita, perché abbiamo dimenticato l’estrema serietà e dignità di un salmo recitato a memoria, di una Ave Maria, di un Eterno riposo, di una vita spesa per essere il cuore vivo e invisibile di una comunità, e quindi del mondo.
Ma in quel drappello di inginocchiati c’è un altro messaggio. Il luogo della preghiera è anche la piazza. I carismi sono faccende pubbliche, politiche, economiche, civili, e non vogliamo aspettare il prossimo terremoto per vedere ancora suore e frati pregare nelle nostre piazze. La ‘messa in sicurezza’ delle nostre splendide città e cittadine appenniniche non sarà mai completa e solida se non rimetteremo anche fondamenta spirituali. Si piange di fronte a queste macerie, si alzano lamenti davanti ai nostri ‘muri del pianto’, perché quelle chiese erano le mura vere delle nostre città. Nella basilica di San Benedetto c’erano, ancora custoditi, anche i pesi e le misure dei mercanti: quella fede ci ha insegnato anche la fiducia nei commerci, quel credere ha fondato il buon credito. Senza religione, spiritualità, preghiera i nostri avi non avrebbero mai costruito Norcia, Visso, Preci (nomen omen), perché quelle città sono nate e sono vissute per secoli anche e soprattutto di cristianesimo. Saremo capaci di ricostruire chiese e non musei, città e non parchi turistici, solo se siamo capaci, oggi, di capire il valore civile di quel piccolo gruppo di persone in ginocchio di fronte a un cumulo di pietre.
La prima risorsa per ricostruire dopo i terremoti è l’anima collettiva dei luoghi. Gli abitanti di quelle città lo sanno. Non sempre riusciamo a dirlo, ma quando si tocca col ginocchio una terra che trema, improvvisamente ci accorgiamo che non lo abbiamo dimenticato del tutto, non lo abbiamo dimenticato tutti. Un ‘resto’ è ancora vivo, segno e speranza che tutto il popolo tornerà. Questo lo sappiamo tutti, ma i portatori di carismi lo sanno di più, per vocazione, per compito di bene comune. Pensavamo di averlo dimenticato. Domenica lo abbiamo ricordato. Impareremo di nuovo a pregare, in ginocchio, di fronte alle macerie delle nostre chiese e delle nostre vite, per ricominciarle, per ritrovarle?